1. Le denominazioni popolari
La classificazione popolare degli animali si basa su categorie differenti da quelle scientifiche. Si parte da un taxon generico e invariante al quale si aggiunge un determinante variabile, secondo lo schema A(x), con A nome generico e invariante e (x) determinante variabile1. Nella denominazione degli insetti ritenuti dannosi e in quelli che ispirano paura, repulsione, ad esempio, il tratto semantico generico si riferisce proprio al carattere pericoloso, repellente, con un determinante basato sulle credenze popolari oppure sull’osservazione di caratteri tipici, come il colore, l’habitat, le abitudini.
Nella tradizione popolare molti zoonimi richiamano le caratteristiche dell’animale e la tendenza a riportare il mondo circostante a figure familiari o del campo religioso. Frati, preti, monache, vescovi e cardinali sono ben attestati nella zoonimia dialettale: ad esempio, nell’area meridionale, cardinale indica la coccinella rossa, in Calabria monacella indica il girino2, in Salento monacello ("piccolo monaco") indica la chiocciola chiusa in letargo3.
Per mezzo della nominazione l’uomo ordina il mondo esterno fenomenico, ma lo può anche condizionare. Il dato esterno, la forma, il colore del referente, oppure una credenza, suggeriscono il nome. Può anche succedere il contrario, la lingua può condizionare la realtà. Come riporta Beccaria (1995) gli stessi miti potrebbero ridursi all’interpretazione dei nomi: secondo alcuni comparatisti del secolo scorso (A. Kuhn, M. Müller) il mito sarebbe la conseguenza di un’autoillusione linguistica, un inganno verbale, un effetto linguistico. Secondo H. Spencer la venerazione mitico-religiosa di manifestazioni naturali ha come fondamento una errata interpretazione dei nomi che a quelle manifestazioni sono stati dati4.
False equivalenze hanno, quindi, influenzato le credenze popolari: in Francia la salamandra, del tutto inoffensiva, è ritenuta molto velenosa per via del suo nome, mouron, che dall’etimologia popolare è avvicinato a mourir, anche se la voce deriva, in realtà, dal latino maurus, moro, che indica il colore scuro, nero a tacche gialle, del rettile.
Un animale, un insetto possono essere collocati in un ambito di credenze attraverso la composizione linguistica della parola. La stessa vicinanza fonica ha prodotto, in alcuni casi, una rielaborazione semantica. Ad esempio la forfecchia, insetto diffuso nelle pesche mature e sotto la corteccia degli alberi, ha la coda che richiama una forbicetta, usata un tempo dagli orafi per forare i lobi dell’orecchio e infilarvi gli orecchini. In Europa e in Italia il tipo metaforico foraorecchie, prodotto dalla somiglianza con le forbicine, ha assunto un valore semantico autonomo, indicando un insetto pericoloso perché si insinuerebbe nelle orecchie danneggiandole5. La denominazione finisce, in questo modo, con l’alterare la realtà.
2. La lingua e il mito
La parola e il mito sono profondamente uniti tra di loro, qualunque sia il processo che ha portato a questo rapporto. La parola fissa prerogative e attività del referente. Un esempio significativo è dato dall’uso dei parentelari. Il parentelare è attribuito a entità temute, ad animali ritenuti pericolosi o dannosi, come l’orso, il lupo, la volpe, la donnola. Si tratta di voci sostitutive che servono a ingraziarsi l’essere pericoloso. Con l’espressione affettiva si fa credere all’animale temuto che ci siano una parentela e un’amicizia con l'uomo. La volpe viene chiamata comare, l’orso è diventato nonno, il lupo zio6. Il pericoloso è designato, e reso inoffensivo, tramite il familiare, l’amichevole. Le sostituzioni attenuano l’asprezza, il timore del designato, avvicinano il pericoloso come se fosse un amico. Il rospo, simbolo di uno spirito maligno, era colpito da tabù, al pari di coccinelle, mantidi, cavallette, strigidi, donnole ed era chiamato con vezzeggiativi eufemistici, con nomi propri familiari. In provincia di Reggio Calabria il rospo è zidomínicu, zio Domenico, a Ravenna lóala, nonna7. Un altro esempio è dato dalla cavalletta, designata con antroponimi vari, Berta in Molise, Caterina in Piemonte, Lombardia e Liguria, Martino in diverse parti dell’Italia settentrionale8. La donnola, terrore delle campagne, razziatrice dei pollai, ha denominazioni varie, è comarella in Calabria e Campania, comare Anna in Sardegna9. I nomi propri o parentelari, pur essendo apparentemente voci affettuose, sono in realtà nomi deferenti che testimoniano un profondo terrore.
3. Fra terra e cielo. Alcuni zoonimi in Salento.
Fenomeni vari di mitizzazione della zoonimia hanno caricato molte denominazioni di significati che rimandano ad abitudini, comportamenti, tratti del referente oppure ad una sacralizzazione, positiva/negativa, del referente stesso. Lo scorpione, la lucertola e, fra gli ornitonimi, il gufo e la civetta presentano, in Salento, significati sia del primo che del secondo tipo.
Consideriamo qui i dati dell’AIS (carte linguistiche n. 449, 485, 507, 508) e un corpus di dati raccolti in Salento (Lecce, Alezio, Cavallino, Erchie, Galatina, Galatone, Novoli, Soleto, Surbo)10, attraverso l’ostensione dell’immagine del referente.
3.1. Lo scorpione
Lo scorpione è un invertebrato con pinze nella parte anteriore e un aculeo velenoso nella parte terminale dell'addome. L’origine del sostantivo è collocata nel XIII secolo (DISC)11.
Lo scorpione presenta una duplice simbologia: rappresenta il pericolo, la paura, ma anche la protezione contro i nemici.
Nell'antica Grecia era considerato un giustiziere: la dea Artemide, offesa da Orione, aveva ordinato a un grande scorpione di pungere mortalmente Orione al tallone. La dea, riconoscente, trasformò lo scorpione in una costellazione. Nell’antico Egitto lo scorpione rappresentava il male, ma anche la dea Selkhet, divinità benevola, protettrice della vita. I popoli dell’antico Egitto usavano amuleti a forma di scorpione 12.
Nell’AIS (carta n. 485, “ragno”) i dati relativi allo scorpione sono riportati in legenda, relativi a punti esterni al Salento.
Nei dati raccolti nella nostra ricerca, in Salento, prevale nettamente il tipo lessicale skurpjone, con diverse varianti fonetiche, skorpjune, skarpjune13.
Sono presenti anche le voci skurtsoni (in 1 caso) e taja’forbiʧi (1), la prima presente in Salento con il valore di “serpe”, la seconda14 attribuita all’aracnide per le sue pinze anteriori, che lo rendono simile alla forfecchia.
3.2. La lucertola
La lucertola racchiude una moltitudine di significati simbolici che variano tra le differenti civiltà e culture del mondo.
Nella mitologia romana la lucertola, andando in letargo durante l’inverno, simbolizzava la morte e, al suo risveglio, la rinascita.
Nell’antica Grecia e nell’antico Egitto rappresentava divina saggezza e buona fortuna. Nei geroglifici egiziani raffigurava l’abbondanza. In Africa occidentale alcune tribù incidevano lucertole sulle loro abitazioni per invocare gli spiriti protettori. Nella simbologia celtica rappresenta il collegamento con l’energia divina e cosmica15.
In zoologia la lucertola viene definita come un piccolo rettile che si nutre di insetti e vermi, con quattro zampe e coda lunga, testa piatta e lingua bifida, amante dei luoghi esposti al sole16. L’origine del sostantivo “lucertola” risale al XIV secolo (DISC).
Il lemma deriva dal latino lacĕrta, nome comune dei rettili squamati rappresentanti della famiglia Lacertidi, comprendente oltre 30 generi, diffusi nei più diversi ambienti in Eurasia e Africa. Lunghe in genere da 10 a oltre 40 cm., le lucertole hanno arti pentadattili, coda lunga e fragile, il dorso ricoperto di squame embricate, la lingua piatta e bifida. Si nutrono per lo più di artropodi e altri invertebrati17.
Nella carta n. 449 dell’AIS relativa alla voce “lucertola” sono presenti i tipi lessicali lucerta, in diverse varianti fonetiche, sarika, istaurikula18.
I dati raccolti in Salento presentano una netta prevalenza del tipo lu’ʧertula20, in un caso al maschile, lu’ʧertulu. Segue, per rango, il tipo lu’ʧertola fraʧidana (19 presenze), con diverse varianti fonetiche, che in salentino indica il geco grigio, registrando una sovrapposizione semantica tra i due referenti.Compaiono inoltre i lemmi luʧerta (latino) (4), salamitru (dal greco samamìthi - geco) (5), stra’fikula (7), piʃi’pikula (1), sarbila (salamandra) (1), lu’ʧertola til:a maton:a “lucertola della Madonna” (1). I dati confermano gli esiti rilevati in Tempesta, De Fano (2010), nei quali, però, non compaiono le voci salamitru e sarbila, entrambe indicative di sovrapposizioni semantiche, con il geco la prima, con la salamandra la seconda. piʃi’pikula è, nel VDS, considerata una deformazione, per etimologia popolare, di stra’fikula, sari’kula, entrambe provenienti dal neogreco.
4. Simboli della paura
Tra i demoni in forma di animali compaiono gli animali notturni, che amano il buio, diversamente dal mondo greco-latino, in cui i demoni affollavano soprattutto il meriggio. Caratteri e nomi demoniaci sono stati attribuiti soprattutto ai rapaci notturni, considerati messaggeri di morte, che predicono e portano disgrazie.
Il valore semantico negativo può diventare positivo in dipendenza di elementi contestuali specifici. Nel Salento la civetta che stride annuncia la morte, è invece portatrice di simboli positivi se nidifica dove c’è un malato.
Nel Sud la civetta è di buon augurio per la casa su cui si posa, di cattivo per quella a cui volge lo sguardo.
In molte culture gufi, rospi, donnole, serpenti, lucertole, ramarri, salamandre vengono considerati animali demoni che, ad esempio, succhiano il latte alle mucche e alle capre.
Nel tempo è stata costruita una vera e propria serie di animali magici, non sempre collegati ad attributi fisici come la presenza di corna, di mandibole, o al colore, che rappresenta un tratto portatore di simboli21.
Una serie con connotazioni negative è formata, ad esempio, dalla cavalletta e dalla libellula. La cavalletta, ritenuta portatrice di brutte notizie, è definita cavaddë du dmonie a Bisceglie, diaulu nel Lazio, riávolo in Campania22.
Denominazioni analoghe ha avuto la libellula in Europa: diavolo, martello del diavolo, diavolo volante, oppure strega, strega dell’acqua, uccello delle streghe, in Italia masciara al Sud, cavallo delle streghe a Teramo, cavaddi te stríara a Cerfignano, in provincia di Lecce, cavallo della morte a Potenza, Campobasso, testa di morto in Campania, nel Barese, nel Salento, in Sicilia.23.
La negatività dell’insetto si ritrova anche nei tipi lessicali, diffusi in Europa, in cui ricorre il concetto di “serpe”: si credeva che il morso delle libellule fosse velenoso e si rappresentava l’insetto come una serpe per la forma della testa e il corpo sottile e allungato24.
4.1. Il gufo
Il gufo, in Salento, presenta una simbologia di carattere prevalentemente negativo.
Zoologicamente viene identificato come un uccello appartenente alla famiglia dei rapaci notturni, caratterizzato da ciuffi ai lati della testa, occhi grandi e becco ricurvo. Dal punto di vista figurativo indica una persona poco socievole, introversa, portatrice di sfortune25. Sono tipiche, al riguardo, espressioni come “fare la vita del gufo”, “una vita da gufo” per indicare l’essere solitario, una persona dall’aspetto tetro e cupo che vive appartandosi dagli altri, e “fare il gufo”, “fare l’uccello del malaugurio”, per indicare qualcuno che prevede sventure26, anche in similitudini fisiche come nelle espressioni “sembrare un gufo”, "avere occhi di gufo”, “fare la faccia da gufo”.
Il lemma risale al XIV secolo (DISC) ed ha un’origine onomatopeica.
Il nome indica vari uccelli rapaci notturni, appartenenti a vari generi; in Italia vivono il g. comune, noto anche col nome di duca cornuto, con ciuffi auricolari relativamente lunghi, e il g. di palude con ciuffi auricolari corti; il g. reale, detto anche g. grosso, di grande statura, con cornetti lunghi e distinti, vive nelle fitte foreste soprattutto alpine27.
Il gufo è attivo nell’oscurità della notte, per questo, in Salento, viene identificato con il male e con le forze oscure. Il rapace, per via delle abitudini notturne, della vita solitaria e del verso cupo, è considerato, infatti, portatore di sventure e messaggero di morti imminenti. Anche il derivato gufare ha il valore negativo di “portare sfortuna”.
Secondo una leggenda spagnola il gufo si è trasformato in un rapace notturno dopo aver assistito alla crocefissione di Gesù. Tale episodio sarebbe ricordato dal verso stesso del gufo che sembra ripetere la parola cruz, “croce”28.
I dati dell’AIS (carta n. 508) confermano, nelle voci riportate (uccello della morte, portatore di cattive notizie (fjakka nova)), il simbolo negativo assunto da questo volatile in area salentina.
I dati raccolti in Salento mostrano un quadro linguistico-dialettale diverso da quello dell’AIS. Il gufo non viene più identificato come uccello della morte e del malaugurio: le voci dialettali prodotte risultano gufu, che ha il maggior numero di esiti, con una evidente trasposizione della voce italiana in dialetto e l’applicazione di marche tipiche dialettali29, e, in due casi, kuk:uiu, voce onomatopeica che riproduce il verso tipico dell’uccello.
In un caso l’informatore produce kristarjeɖ:u, voce indicante il gheppio30, in un caso kastanedh:u31, barbaʤjan:i (1), pipistrel:u (1), ʧivet:a (6), kuk:uaʃja (3). Quest’ultima denominazione, in Salento, si riferisce alla civetta ed è di carattere onomatopeico come kuk:uiu.
L’ampio ventaglio di tipi lessicali prodotti testimonia un indebolimento delle voci dialettali di questo referente, per il quale si registra anche un importante cambiamento simbolico, con la perdita del determinante negativo del presagio di morte e di cattiva notizia.
4.2. La civetta
La civetta, come il gufo, presenta una simbologia particolare, che ha, però, a differenza del gufo, una connotazione prevalentemente positiva. Rappresenta, infatti, il simbolo della filosofia, della saggezza, della chiaroveggenza, della luce che penetra nell’oscurità.
Nella cultura egizia il geroglifico della civetta rappresenta una simbiosi tra il sole e l’oscurità. Nella cultura indiana si utilizzano le piume delle civette per i copricapi e per i collari, per ingraziarsi gli spiriti benevoli. Dal punto di vista figurativo indica una donna vanitosa e frivola, come nell’espressione “fare la civetta”32.
Il lemma risale al XIV secolo (DISC).
“Civetta” è una voce onomatopeica, indica un uccello notturno di piccole dimensioni, caratterizzato dalla testa grande e dagli occhi gialli33.
In dialetto, in Salento, nei dati dell’AIS (carta n. 507) il rapace è denominato, in modo omogeneo, con la voce onomatopeica kukkuvaša, in diverse varianti fonetiche.
I dati raccolti in Salento confermano la presenza della voce onomatopeica kuk:uvaʃja (14 ricorrenze), sulla quale prevale, però, la voce ʧivet:a, con un significativo spostamento verso l’italiano. Sono presenti varie sovrapposizioni che confermano l’incertezza delle denominazioni usate: gufu (8), kuk:uiu “gufo” (1), barbaʤjan:i (1), kwaja “quaglia” (1), ʃimjot:u “scimiotto” (1), kristjareɖ:u “gheppio” (1).
5. Lingua e sememi
Il quadro dei dati analizzati mostra una diversa tenuta delle voci e dei simboli ad esse associati nel dialetto salentino. Gli ornitonimi considerati, in particolare i nomi dialettali del gufo, attestano una perdita importante dei tratti negativi, con una proliferazione di voci, molte in sovrapposizione con le denominazioni di altri referenti, come gheppio, barbagianni, che rafforza il segnale di indebolimento, linguistico-simbolico, di questi microsistemi lessicali/semantici. I dati confermano il processo di osmosi del dialetto con l’italiano, che porta a importanti innovazioni non solo linguistiche ma anche figurativo-simboliche.