Il discorso politico fra variazione linguistica e variazione testuale – Argomentare attraverso la vaghezza semantica

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Keywords: discourse analysis

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  1. Riferimento a tutto il contributo:
    Giuseppe Paternostro (2021): Il discorso politico fra variazione linguistica e variazione testuale – Argomentare attraverso la vaghezza semantica, Versione 1 (31.05.2021, 16:33). In: Stephan Lücke & Noemi Piredda & Sebastian Postlep & Elissa Pustka (a cura di) (2021): Linguistik grenzenlos: Berge, Meer, Käse und Salamander 2.0 – Linguistica senza confini: montagna, mare, formaggio e salamandra 2.0 (Korpus im Text 14), Versione 1, url: http://www.kit.gwi.uni-muenchen.de/?p=75070&v=1
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1. Premessa

“In politica mai dire mai”. Con questa epanadiplosi tanto abusata da poter essere quasi considerata un luogo comune, i personaggi politici sono soliti giustificare i più arditi cambiamenti (o stravolgimenti) di strategie, tattiche, alleanze, accordi più o meno estemporanei fra partiti, fazioni, coalizioni. Insomma per usare un’espressione coniata in ambito politico, ‘mai dire mai’ è l’argomento decisivo usato in ogni ragionamento che voglia giustificare un ‘ribaltone’. E proprio da queste due espressioni vorrei partire in questo lavoro con il quale mi inserisco volentieri nei festeggiamenti in onore dell’amico Thomas Krefeld. Iniziamo con ‘ribaltone’. Come è stato recentemente osservato da Vittorio Coletti , quello che a tutti parve, al suo apparire intorno alla metà degli anni ’90 del XX secolo, un neologismo, almeno nel significato di rovesciamento post-elettorale delle alleanze con le quali i partiti si erano presentati agli elettori, in realtà era già attestato, con un analogo senso figurato, già in vari lessici ottocenteschi. Addirittura, nel significato politico di rovesciamento delle alleanze, il termine “era già sporadicamente apparso negli anni Settanta-Ottanta del Novecento, come è oggi facilmente desumibile da una semplice ricerca su Google” (Coletti 2018, 139). Questa osservazione di Coletti, significativamente inserita in uno stimolante lavoro sull’italiano che l’Autore chiama “scomparso”, mi conduce a spiegare il motivo che mi ha spinto di concentrarmi in questa sede sul discorso politico. Mi pare, infatti, che esso sia un luogo privilegiato per osservare la dinamicità dei mutamenti linguistici e la loro non perfetta linearità. Tale privilegio è giustificato da diverse ragioni, le quali hanno a che fare con le due espressioni sopra richiamate. “Mai dire mai”, in fondo, significa che in politica è sempre possibile un “ribaltone”, il quale riguarderà non soltanto le scelte politiche ma anche le scelte linguistiche, le quali delle prime sono espressione.
Un ulteriore motivo di interesse che mi spinge in questa sede a occuparmi di discorso politico è che quest’ultimo consente in modo assai evidente di cogliere quella variabilità che per Coletti interessa tipi e generi testuali tanto in sincronia quanto in diacronia. Esso si muove infatti fra generi testuali assai diversificati, tanto che è assai difficile tracciarne i confini, che appaiono in effetti assai sfumati1.

Tale tendenza alla variabilità del discorso politico si riflette in una delle sue caratteristiche più interessanti, cioè quella di sfruttare al massimo una delle proprietà prototipiche delle lingue storico-naturali, ossia la vaghezza semantica. A questo proposito, (Petrilli 2015) molto opportunamente osserva che proprio questa caratteristica è alla base dello stigma che tradizionalmente marchia il linguaggio politico, considerato (non sempre a torto, va detto) fumoso, incomprensibile o addirittura intrinsecamente menzognero. Un linguaggio respingente, che scoraggia i cittadini dal partecipare attivamente alla vita democratica, una sorta di salamandra che con la sua particolare colorazione avvisa di essere velenosa e indigeribile, qualcosa insomma da evitare accuratamente. Per questa via, il mondo politico finisce per chiudersi in una torre d'avorio in cui l'autoreferenzialità è insieme causa ed effetto della volontà di gestire il potere per il potere.
Lungi dal voler fare qui l’avvocato del diavolo, in questo contributo vorrei riflettere sull’utilità di interpretare il discorso politico da una prospettiva linguistica, cosa che impone di partire dal testo, in quanto, come si sa, la lingua non esiste al di fuori del testo, se non come sistema astratto. In tale prospettiva occorre, prima di ogni altra cosa, cogliere le ragioni delle scelte linguistiche compiute dagli attori politici e, in seconda battuta, dare a tali scelte un valore “politico”, che può essere individuato a partire dalla funzione che esse svolgono nel testo. Questa funzione è legata, come proverò a mostrare nei paragrafi che seguono, alle modalità di gestione dell’argomentazione, la quale rappresenta il tipo testuale dominante nel discorso politico2. Il modo in cui l’argomentazione è presente nei diversi generi in cui l’attività politica è discorsivamente contestualizzata è in grado di indicare i termini della proporzione fra componente dialettica e componente retorica del singolo testo3. In questa prospettiva, la vaghezza semantica è la risorsa del livello universale dell’attività linguistica che gli attori politici sfruttano per organizzare nel discorso le loro costruzioni argomentative e modulare le loro posizioni su specifici temi di discussione.
Uno studio del discorso politico che indaghi le scelte linguistiche (lessicali ma non solo) alla luce delle strategie argomentative messe in campo per giustificarle consente di aprire la strada a una visione meno impressionistica e ingenua di queste scelte. Attraverso gli strumenti dell’analisi dell’argomentazione è, infatti, possibile individuare i confini di quello spazio di azione discorsiva entro il quale gli attori politici negoziano i significati e, di conseguenza, confermano o modificano le proprie posizioni.

2. Per un'autonomia del linguistico

Abbiamo ricordato poco sopra che il discorso politico goda di cattiva fama non solo presso l’opinione pubblica ma anche, talvolta anche inconsapevolmente, presso gli stessi studiosi4. A dare un contributo teorico ed empirico fondamentale alla diffusione di tale visione negativa sono stati, secondo Petrilli, quei lavori, che, a cavallo fra le due metà del Novecento, hanno studiato con grande acutezza e sensibilità, i meccanismi linguistici di cui i regimi totalitari si sono serviti per costruire e rafforzare il consenso delle masse5. Questi studi, direttamente o indirettamente, hanno indirizzato l’analisi del discorso politico verso alcuni tratti caratterizzanti che ne fanno l’esempio più compiuto di discorso propagandistico, mirato cioè alla conquista del consenso. La conseguenza è stata un fiorire di lavori (di taglio linguistico, sebbene non sempre i loro autori fossero linguisti) i quali hanno associato la descrizione di tratti e peculiarità linguistiche di specifici personaggi e partiti a giudizi politici o addirittura etici sul loro operato. In Italia, in particolare, abbiamo avuto straordinarie denunce del modo in cui attraverso la lingua si possa nascondere, distorcere, dissimulare, ingannare, a partire dalle invettive pasoliniane contro il modo di esprimersi dei leader democristiani6. L’esistenza di una correlazione fra cattiva politica e cattiva lingua è presente anche in più di uno studio recente, fra i quali vanno segnalati almeno Bolasco (2006), Carofiglio (2010), Bartezzaghi (2012), Zagrebelsky (2010), Antonelli (2017). Di questi, si noti, solo l’ultimo autore è un linguista, il quale ha anche il merito di dare profondità storica alla sua analisi. Antonelli, infatti, coglie una tendenza alla semplificazione sintattica e lessicale nella lingua usata dai politici che interessa l’ultimo quarto di secolo. Sua è la nota differenziazione fra “paradigma della superiorità” e “paradigma del rispecchiamento”. La differenza, secondo l’Autore, sta nel fatto che il secondo

mimetizza abilmente i meccanismi di persuasione riconducibili alla funzione conativa [corsivo nell’originale] del linguaggio, cercando d’instaurare con l’interlocutore un contatto diretto molto più simile a una chiacchierata tra amici: ovvero a quella che i linguisti chiamano funzione fàtica .[corsivo nell’originale] Se prima si mirava a impressionare l’uditorio facendo pesare la propria superiorità culturale, ora si prediligono forme espressive elementari che hanno la funzione di simulare schiettezza, sincerità, onestà. Dal «votami perché parlo meglio (e dunque ne so più) di te» si è passati al «votami perché parlo (male) come te» (Antonelli 2017, 23).

L’individuazione dei motivi di differenziazione in diacronia fra i due paradigmi non impedisce tuttavia di definire il linguaggio politico come quel “linguaggio specialistico il cui scopo è mettere in discussione l’univocità referenziale dei termini a favore di una diversa definizione, legata alla prospettiva di parte assunta dal parlante” (Petrilli 2015, 29). Infatti, la semplificazione linguistica, impressa dai politici negli ultimi decenni a tutti i livelli sistemici (nella sintassi, nella morfologia, nel lessico) con l’evidente scopo di avvicinarsi agli usi linguistici (presunti) dei cittadini-elettori, non ha affatto condotto ad abbandonare la pratica di negoziare e manipolare continuamente nel discorso i significati dei termini al centro del confronto fra gli attori politici. Anzi, come ben colgono Gualdo e Dell’Anna (2004), la fase attuale ha portato alla creazione di nuove forme dell’oscurità (l’uso dell’inglese ad esempio), le quali in ogni caso, seguendo la definizione poco sopra riportata - che qui faccio mia - saranno piuttosto da considerare espressione di una irriducibile complessità concettuale, niente affatto intaccata da quei processi di semplificazione, caratteristici del paradigma del rispecchiamento, che interessano soltanto la superficie linguistica del testo.
Da questo punto di vista, dunque, l’oscurità non dipende dalla incomprensibilità in sé del vocabolario tecnico, ma dal fatto che quest’ultimo non ha una definizione univoca. Come ha infatti osservato Tullio De Mauro, le manipolazioni e gli stravolgimenti fraudolenti delle parole da parte degli attori politici esistono e anzi costituiscono un tópos sin dall’evo antico. Per De Mauro, ovviamente questi misfatti esistono ed è un dovere civico individuarli e denunciarli. Tuttavia, prosegue “le relazioni tra linguaggio e politica sono ben altre, ben più ampie e complesse degli effetti discorsivi ravvisabili nell’uso linguistico di questo o quel soggetto della vita politica” (De Mauro 2014, 8). Queste relazioni invarianti rispetto all’uso possono essere colte attraverso l’analisi del processo che lega le parole al testo, o meglio che contestualizza le parole all’interno di un determinato testo. Attraverso l’analisi del discorso politico è possibile studiare anche, come suggerisce Cedroni (2014), gli stessi processi decisionali politici e sociali di cui si occupa la scienza della politica, in quanto essi non sono semplicemente comunicati attraverso la lingua (parlata o scritta) ma ne sono parte integrante7.

3. Dotare la variazione sincronica di profondità diacronica

Nel paragrafo precedente abbiamo citato alcuni studi che pongono l’analisi linguistica al servizio di un giudizio di tipo etico sull’uso del linguaggio per distorcere, occultare o mascherare i fatti a fini propagandistici. Alcuni di essi si ispirano, indirettamente o, come quello di Zagrebelsky, esplicitamente al lavoro che meglio è riuscito a rappresentare questo “lato oscuro della luna”. Mi riferisco a quello straordinario documento a metà fra il diario, l’autobiografia e il saggio di sociolinguistica che è LTI. La lingua del Terzo Reich di Viktor Klemperer, che significativamente reca come sottotitolo Taccuino di un filologo. Il punto di vista di Klemperer è estremamente diverso da quello di altri lavori precedenti o successivi sulla lingua dei regimi totalitari. In primo luogo, banalmente, in quanto il filologo tedesco visse sulla propria pelle gli effetti prodotti dalla sistematica opera di disumanizzazione di intere categorie di persone (ebrei, omosessuali, disabili, oppositori politici) costruita attraverso l’uso fraudolento e distorto della lingua da parte del regime nazista. Ma ancora più significativo è il fatto che Klemperer mostri di avere molto chiaro che la lingua non esiste al di fuori delle condizioni storiche, sociali, culturali nelle quali essa è usata e che, soprattutto, risponde agli interessi e alle esigenze di chi la usa. Infatti, egli dedica un intero capitolo del suo lavoro ad argomentare contro l’equiparazione, che già dall’immediato dopoguerra circolava come tópos, fra ordine del discorso nazista e costume linguistico sovietico. La via attraverso la quale si sosteneva questa equiparazione muoveva dalla constatazione che tanto il lessico nazista quanto quello di matrice leninista fanno ricorso a metafore di tipo tecnologico e meccanicistico. Klemperer, a questo proposito, sostiene che “quando due si servono della medesima forma di espressione non è detto che siano mossi dalla medesima intenzione […] ora abbiamo un disperato bisogno di conoscere il vero spirito dei popoli da cui siamo stati tenuti lontani tanto a lungo, sui quali ci hanno raccontato tante menzogne. […] Niente ci avvicina di più all’anima di un popolo quanto la lingua… Però “gleichschalten” e “ingegnere dell’anima” sono entrambe espressioni tecniche, ma la metafora tedesca conduce alla schiavitù, quella russa indica la libertà” (Klemperer 2017, 192)8.

Al di là di tutto (e soprattutto al di là della scelta di campo ideologica operata dallo studioso tedesco dopo la fine della guerra)9, mi pare che il passo appena citato faccia capire piuttosto chiaramente che non è possibile indagare un tipo di discorso come quello politico appiattendosi sulla sincronia senza considerare la diacronia, o peggio, far riferimento a una sincronia alienata dai suoi assi di variazione.
In effetti, le modalità di manipolazione del discorso elaborate e messe in pratica dai regimi totalitari sono state considerate come parte sostanziale dei modelli linguistici e discorsivi impiegati anche nei regimi democratici. Tutto ciò ha senza dubbio contribuito alla costruzione di quell’aura negativa che oggi ammanta il linguaggio politico e che è ben sintetizzata dalla parola ‘politichese,’ con la quale di solito e ancor oggi si indica la lingua usata dai politici e alla quale, sin dalla sua coniazione, è stata attribuita un’accezione negativa.
Oggi questa immagine negativa si è ulteriormente accentuata, tanto che una buona parte degli studi più recenti, si concentra sugli aspetti che evidenziano lo stato di degrado nel quale versa il discorso pubblico nella fase attuale (e dunque, principalmente quello politico che del primo è il nucleo e la fonte). Specchio e al tempo stesso causa di questa crisi profonda è l’emergere e il rafforzarsi (in Europa e nelle Americhe) di movimenti populisti e sovranisti10.

4. Argomentazione e negoziazione dei significati

Alla base della confusione fra descrizione linguistica e giudizio etico vi è una sorta di empiria priva di teoria, è ciò ha impedito di giungere a una piena comprensione e soprattutto a una soddisfacente definizione di linguaggio politico. Sulla difficoltà di dare una caratterizzazione del discorso politico come ambito di impiego delle risorse linguistiche in situazioni riconoscibili, con ruoli e finalità ben individuabili, insiste anche Santulli (2005). L’Autrice osserva che anche la nota classificazione del linguaggio politico di Edelman (1987), pur basandosi su considerazioni relative al contesto situazionale, “include ambiti che sembrano collocarsi al di fuori dell’area della politica strettamente intesa, con un allargamento della prospettiva che da un lato riflette la difficoltà di tracciare dei confini e dall’altro ripropone il tema della trasversalità della politica” (Santulli 2005, 17)11.
L'idea di partire, come fa Petrilli, dallo sfruttamento della vaghezza semantica appare, invece, allo stesso tempo robusta e malleabile. Robusta in quanto usa come criterio un principio universale delle lingue storico-naturali; malleabile, in quanto può applicarsi ai diversi contesti nei quali si attualizza il discorso politico. Ciò significa, prima di ogni altra cose, che piuttosto che dalle funzioni e gli scopi astratti, occorre partire da ciò che gli attori politici concretamente fanno nel discorso e attraverso il discorso in un determinato genere discorsivo.
Osserviamo, questo proposito, l’esempio seguente, tratto da uno degli ultimi interventi tenuti alla Camera dei Deputati da Aldo Moro, prima del suo sequestro per mano della Brigate Rosse12.

(1)
A chiunque voglia travolgere globalmente la nostra esperienza; a chiunque voglia fare un processo, morale e politico, da celebrare, come si è detto cinicamente, nelle piazze, noi rispondiamo con la più ferma reazione e con l’appello all’opinione pubblica che non ha riconosciuto in noi una colpa storica e non ha voluto che la nostra forza fosse diminuita … Se avete un minimo di saggezza, della quale, talvolta, si sarebbe indotti a dubitare, vi diciamo fermamente di non sottovalutare la grande forza dell’opinione pubblica che, da più di tre decenni, trova nella Democrazia Cristiana la sua espressione e la sua difesa.

Nel brano (una difesa dell’operato e del ruolo della DC come partito guida in Italia) Moro si appella a quella che chiama ‘opinione pubblica’, la cui definizione si può cogliere dall’implicatura contenuta nelle due relative che seguono il sintagma, da cui si inferisce che il leader democristiano considera ‘opinione pubblica’ come sinonimo di ‘elettorato’. Quello di ‘opinione pubblica’ è in effetti un concetto vago. Qui Moro sembra giocare sulla polisemia del concetto. Nelle società democratiche esso è inteso in almeno tre accezioni: l’opinione di massa, l’opinione dei gruppi e l’opinione popolare. La prima è quella che racchiude “l’insieme dei valori e dei significati stabili e condivisi che proviene dalla tradizione storica e culturale di un popolo e assolve a una fondamentale funzione integrativa a livello sociale, precede[ndo] e fonda[ndo] ogni successiva diversificazione in correnti di opinione” (Gili 2009, 1136). La seconda è, invece, “l’opinione di élites e minoranze, ad esempio organizzazioni attive nella sfera pubblica o che agiscono come gruppi di pressione o portatori di interessi” (ibidem).
La terza è “la somma delle opinioni e degli orientamenti individuali su un dato tema [che] è quella che si esprime, ad esempio, nei risultati dei referendum o delle consultazioni elettorali” (ivi: 1137). Moro, ovviamente, non esplicita a quale dei tre significati di opinione pubblica egli si riferisca, anche se è probabile pensare che quello più contestualmente rilevante sia il terzo. In ogni caso, ciò che qui importa notare è che la vaghezza semantica appare qui come una risorsa argomentativa che consente all’oratore di dar forza al suo ragionamento.

4.1. Scelte lessicali e strutture argomentative

Lessico e strutture argomentative specifiche sono dunque i due elementi costitutivi del discorso politico, i quali vanno considerati contemporaneamente se si vuol dare una definizione generale del linguaggio politico. Infatti, l'obiettivo del linguaggio politico di persuadere rispetto a opinioni riguardanti temi di interesse collettivo si manifesta, sul piano dell’organizzazione dell’argomentazione, in una continua rinegoziazione e in un continuo tentativo di rimodellare i significati dei termini chiave del confronto e dell’attività politica.
Da questo punto di vista, il discorso politico avrebbe la sua ragion d’essere nel mantenimento (quasi una rivendicazione) della vaghezza semantica dei termini tecnici (intesi, si badi, come i termini riguardanti i temi politici, ossia tutti quelli di interesse collettivo). In tal modo, l’attore politico può, sulla base delle specifiche condizioni e convenienze politiche del momento, costantemente modificare, allargare, restringere, addirittura ribaltare, stravolgendolo, il valore semantico di un termine. Si tratta di un’operazione che si pone sul piano diametralmente opposto a quello su cui si basa l’interpretazione giuridica, la quale ha come obiettivo di giungere a trovare un significato quanto più possibile univoco di termini controversi.

4.2. Il lato oscuro della negoziazione

Lo sfruttamento della vaghezza semantica è funzionale anche alla creazione stessa dell’interesse collettivo attorno a un tema espresso da un significante il cui significato è disponibile a essere modificato (e anche stravolto in taluni casi) in forza di un’operazione di negoziazione che giunge a una fase in cui il significato si coagula e conquista una sorta di approvazione collettiva esplicita o, in certi casi, di accettazione implicita da parte degli attori che occupano lo spazio del discorso pubblico.
Questa creazione di interesse collettivo avviene principalmente attraverso processi di persuasione argomentativa basati sulla ridefinizione del valore semantico dei termini da associare al tema che si vuol portare al centro del dibattito. Un esempio assai chiaro è quello del tema della ‘legalità’. Quasi tutto il discorso pubblico su questo tema si snoda oggi sull’accettazione di una definizione del concetto che si collega direttamente alla definizione di un altro tema oggi al centro del dibattito, quello della ‘sicurezza’. Legalità oggi è, infatti, collegata quasi esclusivamente a sicurezza. La legalità si rispetta solo in quanto serve a garantire la sicurezza dei cittadini, una sorta di argine a difesa da un pericolo più percepito che comprovato dai fatti13. Una recente ricerca del Censis mostra che, a fronte del calo complessivo dei reati, è parallelamente cresciuta la sensazione di insicurezza dei cittadini14. Riferendosi a questi dati, il segretario della Lega e ministro degli interni Matteo Salvini, sceglie di puntare sul dato percettivo (emozionale) più che su quello fattuale (razionale), e così commenta su Twitter i risultati dell’indagine.

(2)
Una nuova legge che permetta la #LegittimaDifesa delle persone per bene nelle loro case è una nostra priorità.

Nel suo tweet, Salvini impiega la fallacia argomentativa nota come “la falsa pista”, che consiste nel presentare un argomento che non ha riscontro nella realtà fattuale (l’insicurezza, che è soltanto percepita) allo scopo di fuorviare l’attenzione sul tema principale (la riduzione dei reati).
Il ragionamento di Salvini richiama, a cascata, altre due fra le più diffuse fallacie argomentative usate nel discorso politico: quella del “ricorso a una credenza”, che consiste nel postulare come vera una certa affermazione sulla base del fatto che la maggior parte delle persone la ritiene vera (come ritenere che vi sia un aumento dei reati quando è vero il contrario); e quella del ricorso alla paura, che basa la correttezza di un ragionamento su un qualche fattore esterno che è rilevante rispetto a quello che una persona stima ma che non è rilevante rispetto alla verità o falsità di un’affermazione.
Legalità e sicurezza divengono così nel discorso pubblico contemporaneo un binomio indissolubile, tanto da poter affermare che fra i due termini pare essersi surrettiziamente istituito un rapporto di sinonimia, in ragione del fatto che esso non è messo in discussione da nessuna delle principali forze politiche. Si consideri il seguente esempio, relativo a un tweet del 6 ottobre 2018 del sindaco di Firenze Dario Nardella (PD).

(3)
Ringrazio la polizia municipale che oggi ha fermato due donne travestite da mimi che molestavano turisti e passanti. Sono state segnalate alla Questura per il decreto di espulsione. Avanti così #sicurezza #firenze
6/10/2018 16:11

Nel post si evidenzia assai bene lo slittamento semantico che il concetto di 'sicurezza' ha avuto nel repertorio lessicale della sinistra italiana, in cui tradizionalmente il significante ‘sicurezza’ era associato a campi semantici assai lontani da quello attorno ai quali orbita attualmente, che sono quelli di una legalità che a sua volta si è allontanata sempre più dal campo semantico del ‘diritto’ e dei diritti’ per approdare a quello dell’’ordine pubblico’. Dalla rivendicazione del diritto al lavoro e alla sua tutela, alla salute e alla sua tutela, insomma dalla sicurezza sociale, si è così passati al diritto a non essere ‘molestati’ da coloro che sono per principio esclusi da ogni diritto e da ogni tutela sociale. Nel momento in cui le parole si staccano dalle cose a cui dovrebbero essere associate, la deriva linguistica diviene inevitabilmente deriva politica. Lo slittamento in termini di semantica politica è confermato da un successivo post, pubblicato stavolta sulla propria pagina di Facebook, da Nardella, in cui la sicurezza (declinata sempre in termini di ordine pubblico) è definita “un diritto più che un bisogno” che lo Stato deve garantire aumentando il numero di agenti di pubblica sicurezza.

4.3. La deriva semantica

Lo slittamento semantico di un termine finisce spesso per coinvolgere anche le parole ad esso vicine. Consideriamo il seguente esempio, relativo a un tweet pubblicato il 25 aprile 2017:

(4)
#Salvini: un paese è libero se SICURO. I nostri nonni persero la vita perché non passasse "lo straniero".
#legittimadifesasempre

In questo caso l’uso eccessivamente disinvolto della vaghezza semantica finisce per giustificare la soppressione del contesto storico, che a sua volta consente di separare i referenti dalle parole, che assumono così significati del tutto opposti. Sul piano logico, qui Salvini ricorre a una variante della fallacia informale per ambiguità, in cui si usano parole e frasi ambigue. La differenza è che solitamente l’ambiguità consiste in un cambiamento di significato delle parole nel corso dell’argomentazione. In questo caso, l’anfibolia riguarda il cambiamento dei referenti storici delle parole impiegate nel testo. Le parole ‘libero’, ‘sicuro’, ‘straniero’ e soprattutto l’hashtag #legittimadifesasempre, creano una catena logica del tutto irrelata rispetto all’evento storico a cui il messaggio fa riferimento, che peraltro è esso stesso ambiguo, dal momento che, se non fosse per la data in cui esso è stato pubblicato (il 25 aprile, giorno in cui si celebra la liberazione dell’Italia dal nazifascismo), il tweet potrebbe anche, senza soverchio sforzo, essere associato non già alla seconda ma alla prima guerra mondiale.

5. Negoziare i significati fra implicitezza ed esplicitezza

Uno degli aspetti più interessanti della negoziazione dei significati delle parole del lessico politico è che essa avviene sul terreno argomentativo in forma sia esplicita sia implicita. In quest’ultima parte del contributo, discuterò due esempi, entrambi tratti dalle più recenti vicende della vita politica italiana, in cui questa continua messa in discussione dell’univocità dei significati in favore di una loro ridefinizione legata alla prospettiva assunta dal parlante è piuttosto evidente. Il primo riguarda un caso in cui la ridefinizione dei significati avviene in modo esplicito attraverso atti linguistici espositivi ed epilinguistici (Petrilli 2015, 28). Nel secondo, invece, questa ridefinizione avviene in modo più implicito, senza cioè che tale ridefinizione sia offerta all’attenzione del destinatario, attraverso il ricorso a metafore, implicature o attivatori di presupposizione (ibidem). In entrambi gli esempi, invece, si potrà notare che la ridefinizione passa anche attraverso commenti di qualificazione che permettono di modificare il termine oggetto di negoziazione.
Entrambi gli esempi si riferiscono a videomessaggi diffusi attraverso i social network, luoghi digitali di condivisione ampiamente sfruttati dai politici in quanto consentono quella che è stata definita “disintermediazione”, una dimensione nella quale “il soggetto politico parla direttamente con i cittadini, marginalizzando la tradizionale mediazione giornalistica” (Bentivegna in http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/politicamente/Bentivegna.html, pagina consultata il 12/04/2019).

5.1. La ridefinizione esplicita

Iniziamo, come anticipato, con un caso relativo a una ridefinizione esplicita, alla quale si ricorre di preferenza quando si intende giungere alla sostituzione di un significante che appare semanticamente saturo. Questo è quanto è avvenuto con l’introduzione del concetto di “contratto di governo”, con il quale si è cercato di dare una giustificazione politica alla formazione di un governo appoggiato da due forze politiche appartenenti a schieramenti diversi (MoVimento 5stelle e Lega). Il lavoro argomentativo, in questo caso, è consistito soprattutto nel giustificare la necessità di non utilizzare le espressioni solitamente impiegate per descrivere governi frutto di accordi fra forze politiche anche profondamente diverse, quali ‘alleanza’, ‘compromesso’, ‘accordo’, ‘coalizione’, ecc. Queste, ad esempio, le parole del capo politico dei 5stelle Luigi Di Maio (https://www.youtube.com/watch?v=Erocp0QZWBI, pagina consultata il 12/04/2019).

(5)
Come vi ho detto sempre non è un’alleanza, è un contratto da firmare. È un contratto che mette al centro i cittadini e i loro problemi. Non mette al centro i politici. Non stiamo parlando di nomi, stiamo parlando delle questioni irrisolte da trent’anni in Italia.

In questo breve passaggio, Di Maio chiarisce il senso nel quale va intesa la decisione di usare l’espressione ‘contratto’, che viene qui esplicitamente contrapposta ad ‘alleanza’. Quest’ultimo termine, secondo Di Maio, indica gli accordi stretti per tutelare gli interessi di cui sono portatori gli attori politici. Per ‘contratto’, invece, il capo politico dei 5stelle intende un accordo stretto direttamente con i cittadini. La presenza di un atto epilinguistico non comporta tuttavia la rinuncia al commento e all’uso dell’implicito, meccanismi che nel brano fungono da argomenti in appoggio all’affermazione esplicita, la quale, di fatto, costituisce la tesi del ragionamento. Più in particolare, la proposizione relativa del secondo enunciato costituisce un commento che qualifica ulteriormente il termine oggetto di negoziazione, precisandone le caratteristiche. Il terzo e il quarto enunciato, invece, istituiscono un implicito paragone fra ‘contratto’ e ‘alleanza’. Di Maio, infatti, nell’evidenziare i tratti che non caratterizzano il contratto, implicitamente li assegna alla sfera dell’alleanza.

5.2. La ridefinizione implicita

Quando la negoziazione dei significati avviene interamente attraverso il ricorso all’implicitezza, l’ascoltatore è indotto a ricostruire il significato attraverso inferenze. Il brano che segue è tratto da una lunga diretta video postata sulla propria pagina Facebook dal ministro dell’Interno Matteo Salvini il 7 settembre 2018. Nel video si vede Salvini che, dalla sua scrivania del ministero, legge l’avviso di garanzia per sequestro di persona notificatogli qualche ora prima dalla Procura della Repubblica di Palermo in relazione al caso della nave Diciotti15.

(6)
Ebbene adesso andiamo a leggere se sono un sequestratore e se voi ((punta il dito indice verso la videocamera) siete complici. Perché io ringrazio uno per uno i tre milioni di amici su Facebook e anche su Twitter e su Instagram che in questi giorni mi stanno dicendo «non mollare!» […] Io non ho mai visto un atto giudiziario nei miei confronti, quindi non so se voi siate usi ((ride)) ad essere indagati, assolti, archiviati, perquisiti… per me è una esperienza nuova e ci tengo a condividerla con voi. Perché quello che faccio nel bene e nel male lo faccio con voi. […] ((legge l’avviso di garanzia)) Penso che la stragrande maggioranza degli italiani per bene abbia qualche perplessità perché qui c’è sostanzialmente la certificazione che un organo dello Stato ((indica la carta intestata della Procura della Repubblica di Palermo)) indaga un altro organo dello Stato. Con la piccolissima differenza che questo organo dello Stato ((indica se stesso)) pieno di difetti per carità di Dio e di limiti è stato eletto da voi. ((punta l’indice verso la videocamera)) Voi avete chiesto di controllare i confini, di controllare i porti, di limitare gli sbarchi, di limitare le partenze, di espellere i clandestini, quindi me l’avete chiesto e vi ritengo miei amici, miei sostenitori, miei complici. Altri non sono eletti da nessuno e non rispondono a nessuno.

Lo stralcio che abbiamo proposto è assai complesso e tutto giocato su presupposti e su premesse non esplicitate, che mirano a dimostrare la tesi di fondo sulla quale Salvini ha basato la sua strategia difensiva nei confronti dell’accusa che gli era stata rivolta, strategia che alla fine si è rivelata vincente. Nel brano, Salvini ricorre a quello che Lakoff (a proposito della strategia social del presidente degli Stati Uniti Trump) chiama preventing framing “il framing preventivo, che consente […] di essere il primo a definire e inquadrare, a suo vantaggio, le questioni politiche” (Pregliasco 2019: 35).
Nel caso del brano riportato, la vaghezza semantica interessa interi enunciati, attraverso i quali Salvini ridefinisce implicitamente un concetto cardine della democrazia rappresentativa, che riguarda la fonte stessa della legittimazione dei poteri. L’opinione pubblica a cui faceva riferimento il discorso di Moro che abbiamo commentato poco sopra (vedi es. 1) si trasforma nel “popolo” dei followers di Facebook e degli altri social network. Il fulcro di questa operazione di ridefinizione è però nella seconda parte del brano, in cui l’enunciato più interessante ai fini del nostro ragionamento è “c’è sostanzialmente la certificazione che un organo dello Stato indaga un altro organo dello Stato”. Qui Salvini istituisce implicitamente una equivalenza fra l’istituzione e chi la rappresenta, in modo da poter usare uno degli argomenti tipici del discorso populista: la sola legittimazione è quella che proviene dall’investitura popolare, la quale, peraltro, crea un legame di complicità con colui il quale riceve quell’investitura. Di conseguenza chi non è eletto da nessuno (i magistrati) non può arrogarsi il diritto di ingerire sulle azioni di chi gode della legittimazione popolare. Nell’enunciato troviamo una sorta di modificatore della forza illocutiva, rappresentato dall’avverbio ‘sostanzialmente’, che di fatto conferisce vaghezza all’enunciato che introduce, in quanto implica che quanto segue non ha un reale significato sul piano del diritto costituzionale ma solo su quello dell’interpretazione politica.

6. Conclusioni

In questo contributo ho provato a offrire alcuni spunti per riflettere sull’utilità di studiare il linguaggio politico da una prospettiva in cui l’analisi linguistica non si riduca a una mera ed estemporanea elencazione di tratti (da quelli lessicali a quelli sintattici) che non riesca a collegarsi a una definizione che ne colga le caratteristiche peculiari. Da questo punto di vista, ho cercato di indicare due strade convergenti. La prima è quella che tiene assieme analisi sincronica e diacronica, o meglio quella che dà alla sincronia una profondità diacronica. La seconda è quella che collega le singole forme o strutture oggetto di analisi alla loro funzione all’interno del discorso. Quest’ultima è la via che è in grado anche di toccare un aspetto che qui ho solo sfiorato, che è quella della variabilità dei generi nei quali il discorso politico si articola, generi che, a seconda delle fasi storiche, si moltiplicano e si contraggono, fin quasi a ridursi a una nebulosa irriconoscibile, in cui i diversi piani si confondono annullando la variabilità diafasica (Paternostro 2016).
Ciò che mi preme rimarcare in conclusione è che lo studio dei meccanismi che regolano il funzionamento del discorso politico ha un’utilità che va al di là del lavoro di ricerca, in quanto consente di proiettare l’analisi linguistica nel cuore delle questioni che interessano il corpo sociale e che al corpo sociale parlano. Tutto sta nel saperle cogliere e comprendere.

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Come osservano (van Dijk/Wodak 2000), la natura sfumata dei confini del discorso politico implica che tali confini possano essere di volta in volta ridefiniti a seconda di che cosa si intenda per ‘politica’ e dunque di che cosa si voglia includere in tale dominio. In teoria, gramscianamente, potremmo dire che “tutto è politica” e dunque dovremmo/potremmo considerare proprio del discorso politico ogni testo che affronti tematiche che riguardino l’ambito della politica. Tuttavia, Nella concreta pratica analitica si tende a restringere il campo ai generi prototipici del discorso politico, distinguendo, ad esempio, fra discorsi attinenti l’attività politica istituzionale (parlamentare, governativa, delle figure ufficiali come i capi di stato ecc.), discorsi riguardanti l’attività dei partiti (campagna elettorale, dibattito interno, ecc.) e discorsi in cui la politica diviene oggetto di informazione (in tv, alla radio, sulla carta stampata, sul web).
Non intendo, in questa sede, addentrarmi nella discussione sulla differenza fra ‘testo’ e ‘discorso’. Benché non tutti gli studiosi siano d’accordo nel considerare i due termini come sinonimi, li userò qui, per una mera questione di praticità espositiva, in modo quasi intercambiabile, fermo restando che tenderò ad adoperare il primo quando vorrò riferirmi allo specifico prodotto dell’attività comunicativa, mentre ricorrerò al secondo quando farò specifico riferimento al processo che conduce alla costruzione del testo. Si veda su questo (Andorno 2003) e, per quanto riguarda più nello specifico l’ambito politico, (Santulli 2005). Al tempo stesso, seguendo la terminologia introdotta da Peter Koch (Koch 2009), userò il termine ‘genere discorsivo’ in riferimento a quelle concrete attività discorsive che arricchiscono i tipi testuali astratti “di pratiche e di regole nate in un contesto storico particolare, ammettendo magari degli incroci tra le categorie astratte” (Koch 2009, 27).
Faccio qui riferimento al modello di analisi dell’argomentazione elaborato dalla cosiddetta ‘scuola olandese’ (van Eemeren/Grotendorst 1992). Secondo questo modello, i discorsi argomentativi si dislocano lungo un continuum ai due estremi del quale si collocano rispettivamente i discorsi in cui prevale la componente dialettica e i discorsi in cui prevale la componente retorica. La prevalenza della prima si concretizza nei discorsi argomentativi improntati al confronto fra idee, il cui obiettivo è quello di convincere l’interlocutore della giustezza delle proprie posizioni. Questi discorsi sono caratterizzati dal fatto che i partecipanti si dispongono reciprocamente ad ascoltare ed eventualmente a riconoscere la ragionevolezza delle opinioni espresse dall’altro e, dunque a farsi convincere da quelle abbandonando le proprie. Sul piano della teoria politica, questo tipo di discorso argomentativo è quello più vicino al modello di democrazia deliberativa elaborato da Habermas. La prevalenza della seconda componente (quella retorica) si concretizza in discorsi tesi alla persuasione dell’uditorio, usando tutti i mezzi per screditare non solo le idee contrarie alle proprie, ma anche coloro che le professano. Sul piano più generale, si entra qui nel campo della propaganda.
A dire il vero, e per concedere le attenuanti alla categoria alla quale appartengo, gli studi di carattere più propriamente linguistico hanno adottato un modo di procedere più oggettivo, benché abbiano per lo più lavorato sulla descrizione sincronica o diacronica di peculiarità strutturali, che però restano sul piano dell’osservazione empirica, senza spingersi a tentare di giungere a una definizione generale dei caratteri del linguaggio politico.
Capostipite di questo filone di studi è considerato Lasswell (1927).
Riporto una delle più note di queste invettive, quella che Pasolini rivolse ai leaders della Democrazia Cristiana: “[...] ogni volta che aprono bocca, essi, per insincerità, per colpevolezza, per paura, per furberia, non fanno altro che mentire. La loro lingua è la lingua della menzogna. E poiché la loro cultura è una putrefatta cultura forense e accademica, mostruosamente mescolata con la cultura tecnologica, in concreto la loro lingua è pura teratologia” (Pasolini 1976, 29).
Lorella Cedroni, filosofa della politica prematuramente scomparsa, ha il merito di aver introdotto in Italia la cosiddetta ‘politolingustica’, calco dal tedesco Politolinguistik, termine coniato nel 1996 da Armin Burkhardt per indicare un ambito di analisi interdisciplinare che si colloca al confine fra linguistica e scienze politiche. Essa può essere considerata da un lato come un’area di applicazione degli strumenti dell’analisi linguistica (in particolare della semantica e della linguistica testuale), dall’altro come un campo di interesse della scienza della politica applicato allo studio del linguaggio impiegato dagli attori politici.
Klemperer fa qui riferimento, sul versante della lingua del nazismo, a un verbo (gleichschalten, ‘sincronizzare’, livellare, ‘uniformare’), che secondo lo studioso è fortemente rappresentativa della mentalità nazista: “Par di vedere e di sentire il pulsante che fa assumere a persone, non a delle istituzioni, non a istanze impersonali, posizioni e movimenti automatici uniformi” (ivi: 188). Sul versante del modello linguistico sovietico, invece, l'Autore cita la metafora, attribuita a Lenin, secondo cui l’insegnante è una sorta di “ingegnere dell’anima”. Istituendo (in maniera un po’ forzata) un ragionamento sillogistico, se un ingegnere, che si occupa di solito di macchine, viene associato alla cura dell’anima, se ne dovrebbe concludere che l’anima è una macchina. In realtà, osserva Klemperer, l’uso di questo tipo di metafore nel contesto educativo sovietico si spiega con il fatto che la tecnica era, nell’URSS di quel tempo, considerata il mezzo che avrebbe garantito alle masse popolari la possibilità di liberarsi dalla schiavitù del bisogno e di raggiungere livelli di esistenza più degni della condizione umana.
Dopo la caduta del regime hitleriano, Klemperer riottenne la cattedra di filologia romanza al Politecnico di Dresda e, già alla fine del 1945, aderì al partito comunista. Dopo la sua fondazione ufficiale nel 1949, decise di rimanere nella DDR (Repubblica Democratica Tedesca), ricoprendo anche incarichi ufficiali in seno al mondo accademico di quel paese (traggo queste informazioni dalla postfazione alla quinta edizione italiana della LTI).
Un affresco a tinte fosche del circolo vizioso in cui la lingua della democrazia sarebbe caduta a causa dell’abuso (cioè dell’uso fine a se stessa) della retorica è in Thompson (2017).
Edelman individua quattro stili distinti di linguaggio che strutturerebbero il processo politico: lo stile giuridico, lo stile amministrativo e lo stile della contrattazione.
Traggo questo stralcio dal più ampio brano riportato ne L’affaire Moro di Leonardo Sciascia (Sciascia 1994, 43-44).
Secondo i dati diffusi dal Ministero dell’Interno (http://www.interno.gov.it/sites/default/files/dossier_viminale_ferragosto-dati_1_agosto_2017_31_luglio_2018.pdf) gli omicidi sono calati in un anno (luglio 2017-agosto 2018) del 15% (del 50% negli ultimi 10 anni), mentre i furti dell’8% (del 38% negli ultimi 10 anni).
http://www.censis.it/7?shadow_comunicato_stampa=121167, ultima consultazione 28 ottobre 2018.
Il 20 agosto 2018 la nave della marina militare italiana Ubaldo Diciotti, che  quattro giorni prima aveva soccorso in mare 190 persone, giunge nel porto di Catania. Su ordine del ministero dell'Interno, i migranti sono stati trattenuti a bordo fino alla mezzanotte del 26 agosto. Da qui l'accusa di sequestro di persona rivolta al ministro Salvini. Nel marzo del 2019, il Senato della Repubblica ha negato l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti.

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