Il veneziano in Dalmazia e a Dubrovnik/Ragusa fino al XVIII secolo: per la storia di uno spazio comunicativo

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Keywords: historical linguistics , maritime republics , Republic of Ragusa , Venetian language

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  1. Riferimento a tutto il contributo:
    Diego Dotto & Nikola Vuletić (2019): Il veneziano in Dalmazia e a Dubrovnik/Ragusa fino al XVIII secolo: per la storia di uno spazio comunicativo, Versione 1 (19.06.2019, 16:35). In: Roland Bauer & Thomas Krefeld (a cura di) (2019): Lo spazio comunicativo dell’Italia e delle varietà italiane (Korpus im Text 7), Versione 90, url: http://www.kit.gwi.uni-muenchen.de/?p=14384&v=1
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Abstract

Il lavoro intende portare un contributo alla conoscenza e alla storia delle funzioni del veneziano nello spazio comunicativo della Dalmazia tra la fine del XIII e la fine del XVIII secolo e di Dubrovnik/Ragusa fino ai primi decenni del XVI secolo, focalizzando in particolare il delicato problema dei repertori dei locutori/scriventi da ricostruire principalmente sulla base delle produzioni scritte. Secondo la nostra interpretazione dei dati, condizionata però da una base documentaria tutta ancora da investigare, un volgare di base veneziana si affermò come varietà veicolare nel medioevo a seguito dell’espansione politica e economica di Venezia, rafforzando gradualmente la propria posizione nello spazio comunicativo della Dalmazia a partire dal XV secolo e viceversa regredendo a Dubrovnik/Ragusa, dove un volgare di base toscana si sostituì in età moderna al volgare venezianeggiante. La storia delle funzioni del veneziano in Dalmazia in età moderna ha un risvolto fondamentale anche nella storia della lingua croata perché essa condiziona la risalita delle varietà slave in  alcuni contesti comunicativi.

1. L’impianto

Il presente contributo si inserisce nella parte del volume sulla diacronia dello spazio comunicativo che è toccato dall’espansione anche linguistica delle repubbliche marinare, Venezia, Pisa, Genova. Sulla base delle linee guida esposte da Krefeld (2017), si tratta di studiare il contributo di queste varietà alla costituzione dell’odierna Italo-Romania e le loro funzioni comunicative presso le comunità non italoromanze.

Trattare in modo sintetico l’influenza del veneziano in Dalmazia, legata all’espansione di Venezia nell’Adriatico, pone in forte imbarazzo a causa della pluralità di fenomeni di contatto linguistico. La molteplicità di forme e di gradi d’interazione politica, sociale, economica, culturale, etc., diversificati nel tempo e nello spazio, stratificati all’interno di ciascuna comunità, fino ad arrivare alla dimensione del singolo individuo e della sua storia personale, impone particolare prudenza nella formulazione di generalizzazioni onnicomprensive. Ad ogni modo, il dominio veneziano significò in primo luogo l’affermazione in Dalmazia di due varietà linguistiche allogene: da un lato il veneziano, dall’altro l’italiano, con un’ampia gamma di soluzioni di compromesso tra questi due estremi a seconda della cronologia, dei centri interessati, delle tradizioni discorsive, dei singoli locutori/scriventi. Questa presenza perdura anche dopo la caduta della Repubblica di Venezia (1797), ma è caratterizzata da una progressiva riduzione delle funzioni comunicative delle varietà italoromanze a causa delle tensioni nazionalistiche, che raggiungono il loro apice alla fine della seconda guerra mondiale.1 A livello di fonti, lo studio di queste varietà interessa la produzione scritta, complessivamente poco studiata, nonché le opere che mirano a documentare e descrivere le varietà veneto-dalmate moderne.2 Last but not least, il contatto slavo-romanzo si rispecchia nell’imponente patrimonio lessicale italoromanzo integrato nelle parlate croate e montenegrine, una fonte preziosissima per la lessicologia storica e più in generale per la linguistica diacronica.3

Di fronte a un argomento così ampio, la nostra attenzione si focalizzerà sul periodo anteriore al 1797, allo scopo d’integrare le sintesi di Metzeltin (1988; 1996; 2009). Questo taglio si deve in parte al fatto che le caratteristiche dello spazio comunicativo della Dalmazia nel periodo austriaco sono state ben delineate da Barbarić (2015, 115-138) in un volume dedicato alla ricostruzione dello spazio comunicativo della Zara italiana (1918/1920-1944). Nel caso di Dubrovnik/Ragusa, invece, ci arresteremo al primo Cinquecento. Con l’interruzione definitiva del dominio veneziano già nel 1358, il graduale riorientamento verso un italoromanzo di base toscana, che nei secoli successivi sarà da identificare con l’italiano, riflette una più ampia partecipazione alle reti interadriatiche e mediterranee che esula dai nostri compiti.

Quanto segue è un contributo alla riflessione sulle funzioni del veneziano (con le varietà che ne derivano) e dell’italiano nello spazio comunicativo della Dalmazia e di Ragusa in questo arco temporale.4 Ci ispireremo al quadro teorico di spazio comunicativo proposto da Krefeld (cfr. Krefeld 2004, 19-36; Krefeld 2018), con il ruolo centrale assegnato ai parlanti e ai loro repertori individuali. Ideato in seno a una Migrationslinguistik moderna e finalizzato a valorizzare l’ambito della prossimità comunicativa, il modello è stato applicato (con adattamenti) anche alle situazioni linguistiche del passato, accessibili attraverso una produzione esclusivamente scritta.5 Come osserva Krefeld (2013, 2, 8), la sfida è quella di mettere in rilievo i locutori/scriventi coinvolti nella produzione delle testimonianze, limitati sia dai loro repertori, sia dalle convenzioni delle tradizioni discorsive che regolano l’uso delle varietà in questione. Non tutti i parametri di questo modello sono trasferibili a un’indagine diacronica perché i dati richiesti dalla ricerca sociolinguistica sono spesso inattingibili e perché la dimensione del parlato, quando emerge, è sempre mediata.6 Pertanto le testimonianze scritte permettono una ricostruzione soltanto parziale dei repertori individuali e di una parte della spazialità del locutore, nonché di determinate situazioni comunicative.7

Il modello di Krefeld ha il vantaggio di distinguere in modo categorico tra la spazialità della lingua, cioè la presenza di una determinata varietà in un territorio, la spazialità del parlante, un parlante concreto con un proprio repertorio individuale, e la spazialità del parlare, con riferimento agli usi convenzionali delle singole varietà. Le potenzialità di queste distinzioni sono evidenti per il nostro oggetto di studio, perché esse consentono di sfuggire alla duplice deformazione che ha contraddistinto una parte cospicua dei lavori dedicati alla storia linguistica della Dalmazia: da un lato, l’assunzione dell’assenza di testi documentari in slavo in un determinato periodo come un argomento per affermare la marginalità della componente slava nelle città dalmate (prospettiva italocentrica); dall’altro lato, la sottovalutazione o addirittura il silenzio sull’importanza delle varietà italoromanze nella quotidianità comunicativa degli slavofoni (prospettiva slavocentrica).

Sulla scorta di queste considerazioni, il presente contributo, poco più di uno schizzo che rimane aperto a integrazioni, si baserà su testimonianze scritte che abbracciano un periodo compreso tra la fine del XIII e la fine del XVIII secolo.8 Oltre alle fonti edite, per le quali in qualche caso si porrà un problema di affidabilità filologica (cfr. DEFAULT), ricorreremo anche a materiali inediti.9

Al centro dell’interesse saranno i dalmati in una prospettiva che permetterà di apprezzare l’uso del veneziano e dell’italiano nel contesto del plurilinguismo slavo-romanzo.

2. Alcune precisazioni: spazio, tempo, repertorio

2.1. La Dalmazia veneziana

Le frontiere statali o amministrative rappresentano senza dubbio un fattore per la configurazione dello spazio comunicativo.10 È pur vero che questi confini possono subire cambiamenti nel tempo e quindi designare realtà solo nominalmente identiche. È il caso della Dalmazia veneziana, che in un primo tempo ricalca soltanto grosso modo i confini della Dalmazia bizantina. È questa realtà che serve come base areale alla sintesi di Metzeltin (1988). Intesa così, la Dalmazia abbraccia anche le isole del Quarnaro. Fra queste, solo Rab/Arbe è, fino al suo riorientamento verso Rijeka/Fiume nella seconda metà del XX secolo, un’isola dalmata a tutti gli effetti. Krk/Veglia è parte integrante di un microcosmo feudale fino al 1480, essendo legata ai possedimenti dei Frangipane nel Regno di Croazia. Cres/Cherso volge le spalle alla Dalmazia, con gli insediamenti storici orientati verso la costa istriana e con le sue varietà croate che formano un continuum dialettale con quelle dell’Istria orientale e centrale (cfr. Lisac 2009, 84-86), segno di un profondo legame storico e demografico. Lo stesso vale in buona misura per Lošinj/Lussino. La venezianizzazione linguistica di queste isole, massiccia nei centri urbani, corrisponde a un processo distinto da quello avvenuto in Dalmazia (con l’eccezione di Zara), che meriterebbe uno studio a parte. Partendo da queste considerazioni, nel presente contributo lo spazio inteso come Dalmazia stricto sensu è compreso tra le isole di Arbe e Korčula/Curzola e tra i fiumi Zrmanja e Neretva.11 A sud rimane il territorio di Ragusa, toccata dalla prima espansione veneziana nell’Adriatico orientale, ma a partire dal 1358 una repubblica di fatto autonoma, sotto la protezione prima del regno ungaro-croato, poi dell’impero turco-ottomano (dal 1526), di modo che essa sarà immune dalle forze storiche che hanno modellato il volto della Dalmazia tra la fine del medioevo e l’età moderna. Rimane fuori dal nostro discorso l’odierno litorale montenegrino (Albania veneta), perché la sua storia fino al secolo XV e le complesse relazioni con l’entroterra ne fanno una realtà a parte.

2.2. La cronologia della venezianizzazione

Assumendo come punto di partenza l’anno 1000 circa, lo spazio delineato nel DEFAULT è caratterizzato dalla compresenza delle varietà romanze autoctone (conosciute tradizionalmente sotto il denominatore comune di “dalmatico”), delle varietà slave e del veneziano.12 Il romanzo autoctono si conserva in una serie discontinua di località sotto il controllo bizantino, separate tra loro da ampie zone d’insediamento slavo.13 L’espansione veneziana è rivolta ai centri costieri o insulari, strategici per garantire il controllo delle rotte marittime nel Golfo. La questione della durata di questo repertorio plurilingue, diversa da una località all’altra (cfr. Ursini 2003, 686), è legata alla longevità del “dalmatico”. Con l’eccezione di Ragusa, dove il raguseo («latina locutio Ragusinorum», «lingua (vetus) ragusea») si estinse verso la fine del Quattrocento, mancano notizie sulle sorti del romanzo autoctono.14 La convinzione di alcuni studiosi che in altri centri, come Zara, il romanzo autoctono sia resistito fino al Quattrocento o addirittura al Cinquecento (cfr. Zamboni 1976, 22), si fonda sull’analisi dei tratti non veneziani nelle scriptae dalmate venezianeggianti del secolo XIV, presenti con minore intensità anche nei testi del secolo XV.15 Lo spiccato vocalismo delle scriptae dalmate è stato ripetutamente attribuito al romanzo autoctono.16 Il problema è che l’ipotesi della vitalità del romanzo autoctono è una premessa indispensabile per poter attribuire i fenomeni in questione al “dalmatico” (cfr. Dotto/Vuletić 2018, 877). A fronte di questo circolo vizioso, il vocalismo delle scriptae dalmate si spiega in modo più economico con gli effetti del bilinguismo slavo-veneziano ottimamente documentato, dal momento che la chiusura di [e], [o] toniche e atone in [i], [u] è caratteristica dei prestiti romanzi nelle varietà croate, nonché del veneziano degli Schiavoni nelle opere dei commediografi veneziani cinquecenteschi.17 Inoltre, lo stesso vocalismo è riscontrabile presso gli scriventi di Šibenik/Sebenico, una città di fondazione slava, dove è impossibile attribuirlo al “dalmatico”. Tra il 1350 e il 1351 lo scrivano di nave Pero de Çorçi di Sebenico inserisce in un patto tra l’armatore e il mercante noleggiatore forme come fermiça ‘fermezza’, mise ‘mese’, avisi ‘avesse’, rumanisi ‘rimanessi’, ilu, isu (non senza controesempi: contrafacesi ‘contraffacesse’, pena), abitaduro, abitatur, nauliçadur, curno / çurni ‘giorno’ (cfr. DEFAULT). Così, un secolo dopo, negli anni 1453-1454 troviamo in posizione tonica albido ‘abete’, façoliti, rimi ‘remi’, sichi ‘secchi’, siga ‘sega’, terin ‘terreno’, chassun ‘cagione’, rampigun ‘rampicone’, talpun ‘pioppo’, zupun ‘giubbone’, in posizione atona minar ‘menare’, piscar ‘pescare’, bucali, etc. negli inventari scritti dai collaboratori locali del notaio Karotus Vitalis da Pirano.18 Questi dati, che forniamo in modo essenziale ma che si poggiano su una base documentaria ben più ampia, dimostrano che l’originalità delle scriptae venezianeggianti dalmate non è riducibile alla pretesa e mai provata azione diretta del sostrato romanzo autoctono.

Secondo Ursini (2003, 693), il veneziano comincia a radicarsi nel litorale adriatico orientale dal secolo X, ma «bisogna attendere tuttavia almeno fino al Trecento perché la venezianizzazione linguistica sia saldamente avviata». Fino a tutto il XIV secolo la sua affermazione nelle città dalmate non sembra essere correlata né alla durata, né all’intensità del dominio politico di Venezia. Nonostante la scarsa durata del primo periodo veneziano a Spalato (1322-1358), la presenza di una scripta italoromanza venezianeggiante in questa città (cfr. Praga 1927) non è meno significativa che a Zara, veneziana per la maggior parte del periodo 1117-1358.19 D’altra parte, al cambiamento di regime politico o all’aperta ostilità nei confronti di Venezia non corrisponde alcuna scelta anti-veneziana in senso linguistico: a Zara, i membri del patriziato che guidano le ribellioni anti-veneziane si servono di un volgare venezianeggiante nelle scritture private (cfr. Dotto/Vuletić 2018, 871); a Ragusa, l’uso di tale varietà nella cancelleria non declina dopo il 1358, anzi si rafforza (cfr. Dotto 2008c, 435-437). Né da parte veneziana è possibile assumere che esistesse una politica linguistica “forte”, tesa all’affermazione della varietà lagunare: semmai è costante, fuori e dentro l’Adriatico, tanto nel medioevo quanto in età moderna, la preoccupazione eminentemente pratica di raggiungere il destinatario senza possibilità di fraintendimenti.20

Tutto sembra indicare che la precoce fortuna del veneziano in Dalmazia sia da collegare innanzi tutto alla sua posizione di varietà veicolare, in un contesto in cui spiccavano almeno tre fattori: la scarsa conoscenza da parte di ampi settori della società del latino, di competenza di un numero ristretto di professionisti della scrittura, legati all’ambiente ecclesiastico o a quello laico dei notai; la necessità di accedere alla scrittura per alcuni gruppi sociali che si trovavano a dover gestire i propri negozi giuridici e economici; il fatto che la precoce tradizione scrittoria slava, in alfabeto glagolitico, rimase per lungo tempo limitata all’ambito ecclesiastico (cfr. Dotto/Vuletić 2018, 868-870). Inoltre la proiezione sullo spazio adriatico di quegli stessi gruppi candidava naturalmente il volgare di base italoromanza a diventare uno strumento di comunicazione veicolare, nello scritto come nel parlato.

La stabilità del dominio veneziano a partire dagli anni ’20 del Quattrocento è all’origine di un consolidamento e allo stesso tempo di una rapida espansione della pratica scrittoria in volgare nei centri dalmati in relativa sintonia con le tendenze che si osservano a Venezia. Questo vale anche per la fisionomia linguistica. In primo luogo, «un sempre maggiore accoglimento di forme condizionate dal prestigio del toscano letterario» (Tomasin 2001, 92).21 A questo processo è addebitabile anche la perdita delle peculiarità della scripta dalmata, con la precisazione che in qualche caso alcuni fenomeni di conguaglio si erano già manifestati nei documenti trecenteschi essendo già attive le condizioni che avrebbero determinato o agevolato il cambiamento. Al netto della conservazione di alcune caratteristiche fonomorfologiche e lessicali del veneziano, la lingua scritta si orienta verso il toscano, ma dentro un continuum dove risulta spesso difficile fissare limiti definiti (cfr. Tomasin 2001, 96, 142). È vero anche per la Dalmazia che nell’ultima fase della Serenissima «il dialetto è riservato al parlato, l’italiano allo scritto» (Cortelazzo 1982, 71), il che non esclude fenomeni d’interferenza (cfr. Tomasin 2010, 93). Fra tutte le tipologie testuali, il profilo linguistico degli inventari è quello più incline alla conservazione del veneziano, da un punto di vista tanto lessicale quanto grafico e fonomorfologico.

Ragusa occupa una posizione privilegiata nella storia dell’espansione del volgare di base veneziana, sia per la buona conservazione della documentazione d’archivio a partire dalla fine del XIII secolo, sia per i contesti in cui emerge l’uso del volgare (cfr. DEFAULT). Inoltre con la fine del dominio veneziano (1358), questa piccola repubblica, nominalmente soggetta al regno ungaro-croato, ma di fatto autonoma, non tarderà ad abbandonare il volgare di base veneziana, per orientarsi verso un volgare analizzato spesso in termini di toscanità, anche se, come osserva Ursini (1987, 139), «non sono chiari i tempi e le modalità con cui questo processo ebbe luogo» (ma cfr. DEFAULT).22

2.3. Le varietà in gioco

Con riguardo alla composizione del repertorio linguistico delle città dalmate, risultano significative le osservazioni metalinguistiche ricavabili da osservatori esterni tra Quattrocento e Seicento. Tra queste, la più citata è l’Itinerario di Giovanni Battista Giustiniani dell’anno 1553 (cfr. Metzeltin 1988, 556-557; Dotto 2008c, 48-49), un dettagliato resoconto sulla situazione linguistica dopo i primi cento anni di stabile dominio veneziano in Dalmazia. Con tutte le cautele dovute a giudizi che rimangono impressionistici, Giustiniani conferma lo status dello slavo (o dalmatino) come «lingua materna e familiare», la presenza del franco come lingua veicolare, ma con restrizioni del repertorio nelle dimensioni diastratica (nobili ~ popolari) e diasessuale (uomini ~ donne), nonché l’avanzata venezianizzazione/italianizzazione di Zara e Lesina rispetto agli altri centri.23 In un’anonima relazione veneta del 1555 si arriva a evidenziare il carattere ibrido della varietà italoromanza di Ragusa, che si comporrebbe di elementi toscani, veneziani (in particolare «venetiani antiqui», quasi fossero riscontrabili fenomeni di arcaismo locale), genericamente settentrionali e meridionali.24

La cronologia della slavizzazione degli antichi nuclei romanzi ha rappresentato a lungo la vexata quaestio della storiografia linguistica della regione. A Ragusa, tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo la simbiosi slavo-romanza era avanzatissima, se non già conclusa, anche nel ceto aristocratico, per quanto il raguseo sopravviva nello spazio comunicativo ancora nella seconda metà del XV secolo (cfr. Dotto 2008c, 24-26, 70). La stessa presenza del raguseo non può essere inflazionata: a fronte del silenzio delle fonti per tutto il XIV secolo, nel 1440 Filippo de Diversis documenta l’uso nei consigli di un «vulgari ydiomate eis speciali, quod a nobis Latinis intelligi nequit», nel 1472 avviene la discussione nel Consiglio dei Pregati su quale lingua usare nelle assemblee («lingua ragusea», «lingua italica», «lingua sclava»), nel 1493 in una commissione a tre ambasciatori ragusei inviati presso l’imperatore turco-ottomano si raccomanda loro di avvicinare Stjepan Hercegović, e di «parlar cum lui solo, da lui a voi, in lingua nostra, perché più familiarmente poreti parlar cum lui», tra il 1501 e il 1503, sempre all’interno di atti ufficiali, il cancelliere per lo slavo Pasqualis de Primo è chiamato «cancellarius in idiomate nostro» e nell’elenco dei salariati e dei forestieri che possono partecipare alle processioni e alle feste solenni si citano «el secretario nostro, et notari et cancellieri dela notaria et cancellaria nostra includendo el cancelliero idiomatis materni» (cfr. Dotto 2008c, 39-47). Se procediamo à rebours e valutiamo la testimonianza di Filippo per Diversis per ciò a cui corrisponde – la sua Descriptio è uno speculum umanistico dedicato al Senato di Ragusa –, non è difficile valutare con sospetto l’asserzione che il raguseo sarebbe stato ancora nel 1440 la varietà esclusiva usata nei consigli e negli uffici da parte degli oratori.

Pur con la necessaria cautela nel trattamento dei dati onomastici, le notizie sulla Zara trecentesca, dove la «lingua sclavonica» assieme alla «latina» è la varietà in cui i veneziani si rivolgono agli «Jadratinis intrinsecis» nel 1346, dimostrano che lo slavo a quest’altezza cronologica aveva un’importanza costitutiva per la formazione del repertorio linguistico locale (cfr. Dotto/Vuletić 2018, 869-870). Lo stesso vale per Spalato, contro i pregiudizi espressi da Praga (1927, 46).25

La “democratizzazione” linguistica che nel XVI secolo si espande da Venezia implica la conquista di nuovi domini nello scritto non solo per il volgare veneziano, ma anche per lo slavo.26 L’uso del croato a fini amministrativi, in scrittura glagolitica, è promosso dalle stesse autorità veneziane a Zara;27 parallelamente, la cultura scrittoria croata ricorre sempre più all’alfabeto latino, soprattutto in ambito letterario. I testamenti in croato in alfabeto latino sorgono anche nei circoli del patriziato zaratino; significativamente, in consonanza con quanto riportato da Giustiniani nelle sue descrizioni, sono le donne a essere direttamente coinvolte in questa prassi.28

In relazione alla lingua scritta, occorre ricordare come il peso della tradizione latina rappresenti un limite importante per la funzionalità tanto del volgare quanto del croato, e quindi come condizioni l’analisi dello spazio comunicativo in diacronia, legata alle fonti scritte. Non è solo una caratteristica del periodo medievale: ancora nel XVI secolo le cancellerie dalmate sono essenzialmente latine e l’uso scritto del volgare, anziché a una prassi amministrativa, risponde piuttosto a iniziative private, certamente più diffuse che nel secolo XIV. Per fornire un dato quantitativo, a Zara nel periodo 1540-1569 la percentuale di documenti notarili redatti in latino arriva al 95% (cfr. Sander 2011, 34).

3. Le prime testimonianze del volgare venezianeggiante in Dalmazia: secoli XIII-XIV

3.1. Il volgare a bordo

I primi, ancora contati, testi in un volgare di base veneziana riferibili all’Adriatico orientale risalgono all’ultimo quarto del XIII secolo e all’ambiente di Ragusa (cfr. Folena 1968-1970, 370-375; Dotto 2008a; Dotto 2008c, 75-80). Queste testimonianze rappresentano solo un attestato di presenza, spesso legato al caso, ma non appare casuale che già i testi più antichi richiamino i due spazi geografici, il mare e l’entroterra balcanico, che segnano la proiezione bifronte della società e dell’economia ragusea: da un lato estratti, in originale o in copia, da quaderni di scrivani di nave, dall’altro lato cedole con ricevute di pagamento/credito o inventari afferenti al commercio o ai rapporti diplomatici con l’entroterra balcanico.29

Uno di questi trascende eccezionalmente l’ambiente locale per coinvolgere un contesto comunicativo ben più ampio. Si tratta della copia, redatta a Ragusa il 30 settembre 1284 dal cancelliere Tomasino de Savere, dello «scriptum factum per manum Andree Blanci», scrivano della nave San Nicolao.30 Il suo contenuto ruota intorno a una lite avvenuta a bordo nell’agosto del 1284 sulla rotta da seguire, verso Pisa, come previsto in origine, o verso il più sicuro Colfo, a causa delle notizie sull’esito della battaglia della Meloria, che sconsigliavano di mantenere la destinazione iniziale, pena il rischio di finire prigionieri nelle carceri genovesi. La nave era infatti salpata da Tunisi. I protagonisti esplicitamente nominati sono due mercanti, il veneziano Nicolò Faletro e il raguseo Marco de Viierico, il paron zaratino Blasio de Thodoro e lo scrivano Andrea Blanci. Sulla provenienza del nocchiere e dei marinai non sappiamo nulla, come per lo scrivano della nave, ma è probabile che fossero zaratini come il paron, o almeno in parte. Su richiesta del Faletro, che intendeva dichiarare il danno subito, il corso della controversia fu registrato dallo scrivano nel libro di bordo. La registrazione fu poi copiata e validata davanti al conte veneziano di Ragusa Michele Morosini e ai giudici. Il testo riprende le repliche scambiate, ricostruite dallo scrivano, rappresentando un notevole esempio di registrazione del parlato. La fisionomia linguistica originaria non è però ricostruibile: in linea di principio è possibile che sia stata alterata dallo scrivano della nave, perché in testi di questo tipo, come nel caso delle registrazioni delle frasi ingiuriose che diventavano offesa criminale, importava solamente la sostanza, non la forma.31 Ciò che è certo, è che essa fu alterata dal cancelliere Tomasino de Savere, originario di Reggio Emilia, con passaggi a Venezia, in Istria e «per alias diversas partes mundi», come si ricava dal suo testamento (cfr. Dotto 2008a, 14-15). Il testo della copia non è quindi un campione rappresentativo della scripta dalmata venezianeggiante, ma il suo valore sta nel dimostrare che il veneziano fungeva da varietà veicolare in un contesto comunicativo circumadriatico. Da un lato, ci rivela idealmente il glossotopo32 di una nave, tanto reale quanto effimero da cogliere, caratterizzato dalla partecipazione di individui straordinariamente mobili; dall’altro, dimostra che il veneziano, in un ventaglio di varietà e di gradi di competenza che sfugge alle nostre conoscenze, faceva parte dei repertori di un armatore di Zara, di un mercante di Ragusa e di un notaio di Reggio Emilia (sposato con una ragusea di nome Stana, figlia di Trifone Scorobogato, un popolano), per menzionare solo i non-veneziani coinvolti nell’atto la cui provenienza ci sia nota.

Altri testi che illustrano tale funzione trasversale del veneziano (o meglio, di un volgare venezianeggiante), sempre ricavati dai libri di bordo, sono la copia cancelleresca dell’accordo fra un paron raguseo e i suoi marinai del 1323 (cfr. Folena 1968-1970, 375-376; Dotto 2009) e un patto per il nolo di una condura del 1350 o 1351 (Dotto 2008b), conservato in una copia autentica dello stesso scrivano della nave e in una copia cancelleresca. Il primo collega in prima istanza due ragusei, il paron Martolo/Bartolo de Sessa e lo scrivano Lunardi de Resti, e un equipaggio assoldato a Venezia; in seconda istanza, il cancelliere di Ragusa Pone Stamberto, di origini pistoiesi, che ha copiato il testo originale vergato da Resti. Nel secondo esempio, la varietà venezianeggiante coinvolge in prima istanza tre dalmati: l’armatore raguseo Pasca de Cuno, il noleggiatore zaratino Ilia Pelegrino (ma abitaduro de Ragusa)33 e soprattutto lo scrivano sebenzano Pero de Çorçi; in seconda istanza, con la copiatura della cedola autografa dello scrivano della nave, il cancelliere di origine trentina Francesco di Arco, presente a Ragusa da otto anni (cfr. Dotto 2008c, 293).

3.2. Da Zara a Ragusa passando per Spalato: le scriptae venezianeggianti nel XIV secolo

La funzione veicolare del volgare di base veneziana in Dalmazia non è limitata al contesto del commercio marittimo. Ne reca una prima testimonianza la celebre lettera del 1325 inviata dal nobile zaratino Todru de Fomat al già ricordato cancelliere di Ragusa Pone Stamberto. La lettera è originale, ma non si può dire anche autografa perché gli elementi per affermarlo non sono sufficienti. Essa è contraddistinta da una spiccata autonomia nei confronti della coeva scripta veneziana, tale da costituire un esempio per eccellenza della scripta dalmata.34 Il fatto che uno zaratino scriva in un volgare fortemente caratterizzato a un cancelliere di origini pistoiesi, a distanza di c. 400 km, rivela molto sulla percezione medievale dello spazio comunicativo, nonché sulla funzione di questo volgare.

La lettera di Todru Fomat costituisce un valido punto di partenza per introdurre la questione delle differenze tra i singoli centri quanto agli ambiti d’uso del volgare di base veneziana. Nella Ragusa trecentesca i contesti d’uso sono innanzi tutto legati all’attività epistolare che si sviluppa intorno alla cancelleria. Todru scrive a Pone Stamberto a seguito di un accordo tra Franciscus de Todero de Fumato de Iadra e Petrus petrarius de Iadra ma habitator Raugii, che prevede espressamente l’invio di una lettera. L’accordo era stato registrato dallo stesso Pone Stamberto a c. 1r in un registro che raccoglie gli atti tra privati stesi con il supporto del notaio-cancelliere comunale.35

A contesti simili si lega la sopravvivenza del corpus dei testi attribuibili agli scriventi non professionisti nella prima metà del XIV secolo, costituito principalmente dalle lettere indirizzate alle autorità di Ragusa (di norma conte e giudici) dai mercanti ragusei che si trovavano nei mercati dell’entroterra, come Rudnik, Brskovo o Novo Brdo, dove si erano stabiliti formando vere e proprie colonie e da dove allo stesso tempo si dovevano preoccupare di gestire a distanza le vertenze giuridiche che li riguardavano. Queste vertenze implicavano ab origine una comunicazione da parte delle autorità ragusee attraverso lettere citatorie o mandati, che affiorano con fatica nella prima metà del secolo nei libri reformationum, per poi esplodere con la creazione di un registro ad hoc a partire dal 1359, evidentemente in coincidenza con una riorganizzazione della struttura cancelleresca a seguito della fine del dominio veneziano nel 1358 (cfr. Dotto 2008c, 290-294). Oltre alle lettere citatorie e ai mandati, l’importante registro avrebbe tenuto traccia anche della corrispondenza diplomatica alternando latino e volgare secondo un criterio comune nella documentazione cancelleresca di corrispondenza, la posizione sociale del destinatario: il latino riservato di regola alle autorità “estere” (per es. doge di Venezia, re d’Ungheria, bani di Croazia e Bosnia, etc.), il volgare ammesso, con la possibilità di essere sostituito dal latino, per gli ufficiali del Comune, per le comunità di mercanti residenti nell’entroterra balcanico e per i privati cittadini (cfr. Dotto 2008c, 295-298).

Viceversa l’adozione del volgare nei testamenti risale al 1348 ed è chiaramente subordinata a una condizione eccezionale, l’epidemia di peste, una situazione che si replicherà nel 1363. Le nove mani che hanno vergato il registro dei testamenti del 1348 e 1363, allestito dopo una deliberazione del Minor Consiglio («quod officiales quando fuerit scriptum testamentum, debeant ascultare si stant sicud origo testamenti constituentis, et debeant habere cum scribano qui scribet ea gss. tres pro quolibet testamento»), sono quasi tutte riconducibili ai cancellieri provenienti dalla penisola italiana, oltre che ad alcuni ignoti professionisti locali (cfr. Dotto 2008c, 121-123). Dal nostro punto di vista, importa rimarcare che i testamenti del ’63 furono articolati in due sezioni sulla base dell’appartenenza sociale del testatore alla nobiltà o al popolo, una gerarchizzazione che manca nella sezione del ’48.36

Vediamo ora due testi esemplari della tradizione discorsiva di gran lunga più significativa, due lettere rispettivamente di un popolano (Give de Stoiano) e di un nobile (Marino de Lucari de Bona). Entrambi fuori Ragusa, scrivono al conte e ai giudici, il primo per rispondere alla lettera citatoria a causa di debito non saldato con il veneziano Marco Querini, il secondo per nominare il fratello Sergio proprio procuratore. Per entrambi l’ipotesi dell’autografia è quanto meno possibile, visto che di entrambi si sono conservate altre lettere vergate dalla medesima mano, si tratta insomma della loro mano o al più della mano di una persona vicina che era solita assolvere al compito di scrivente per conto di ciascuno dei due.

Lettera di Give de Stoiano, 15 settembre 1329 (Dotto 2008c, 100-101):

Allo nobbile honorado mis(er) Baldoino Dalfino (e) ala | corte v(ost)ra, Give filio de Stoiano s(er)vidor v(ost)r‹a›o.

R. | una litera v(ost)ra (e) bene la i(n)tesi. Ben è vero che so’ | debidor a s(er) Marcho Churin pp. iijcxl, ma p(er) la | gra(cia) de Dio ‹yo› yo aço tute le chose sane i(n) co(n)plime|nto, ma sinori mei, vuy saviti che i(n) Bosina sì so’ | male vendide, e no(n) poti vender al so termino, | ma yo me p(er)chaço oni die de vender plu tosto | p(er) es(er) elo e altri mei debidori pagi, e aço spena | i(n) Dio a mandar tosto parte. E anchora ve digo, | sinori, che li drapi sì fo grinati sì che me scon|ven a venderli p(er) força. Pregove, mei sinori, | p(er) Dio de no(n) farme tanto chrudilitade. | Deo ve alegro. |

Data die xv i(n) sentebro. |

[Indirizzo:] Horado homo | mis(er) Balduino | Dalfino (e) ala | sua corte. |

Lettera di Marino de Lucari de Bona, 3 aprile 1330 (Dotto 2008c, 103):

Al nobel (e) savio mis(er) Baldoino Dalfino honorevel cho(n)te ‹d› d(e) Ragussa (e) ala sua chorte, | Marino d(e) Luchar d(e) Bona sall(u)t(em) co(n) rechoma(n)dasone. |

Faço a saper ala vostra signoria che faço meo chomes(er) a defender (e) a schoder | ta(n)to qua(n)to fosi la mia propia p(er)sona S(er)go d(e) Bona meo frar. P(er) me no(n) sia | pagadore a neuna p(er)sona. D(e) çò sia testimoni quisti ij coreri Bosen (e) Me(r)ga(n). |

Fata die ‹x› iij d(e)l meso d’ap(r)ille. |

[Indirizzo:] Al nobel e savio mis(er) Baldo|ino Dalfino ho‹l›norevel | chonte d(e) Ragusa (e) ala sua | chorte data. |

Se si prova a confrontare questi testi con quelli riferibili all’ambiente zaratino, emerge che la fisionomia della scripta zaratina è nel complesso ben differenziata rispetto a quella ragusea e più autonoma dal modello veneziano. Si vedano questi lacerti dal testamento autografo del patrizio zaratino Nicola de Çadulin, che riprende in larga misura, a distanza di quarant’anni, i tratti caratteristici della tradizione a cui fa capo la lettera di Todru de Fomat.

Dal testamento autografo di Nicola de Çadulin, 1 ottobre 1365 (Dotto/Vuletić 2018, 876):

[1r] […] Cu(n) çò sia chi nis|una cosa sì è più çerta d(e)la morti (e) ura d(e)la morti nisu(n) pò savir, (e) p(er)cò mi | Nicola d(e) Damia(n) d(e) Çaduli(n), p(er) la gra(çia) d(e) De’ san d(e)la p(er)suna (e) abia(n)du sana la | me(n)ti e‑l senu, co(n)sidera(n)d(u) le cose p(er)dite, tal d(e)li mei beni façu e ordinu me|u testame(n)tu p(er) quistu scritu d(e) ma(n) mia p(ro)pria (e) siçilad(u) d(e) meu siçilu p(ro)|p(r)iu (e) notoriu. I(n) lu qual testame(n)tu volu chi sia mei cumisarii s(er) Crisi d(e) Çiv|aleli, s(er) Jacomu d(e) Çaduli(n), s(er) Çuane d(e) Tomasu d(e) Petarç (e) s(er) Stefanu d(e) Micha d(e) Sope, (e) cusì comu mi in | quistu meu testame(n)tu urdinirò (e) scrivirò, volu chi sia firmu i(n) p(er)petua. […] Jt(em) volu chi si Ja|drule (e) Pafle mei fioli (e) quil fiol voi quili fioli lu qual voi li qual mi | avisi cu(n) Fra(n)çischa mia muler, cò è maschuli, murisi nu(n) p(er)vigna(n)du ala ità le|itima, (e) Colane (e) Pafle mei nevud(i) suufrascriti murisi çe(n)ça red(i) leitima (e) | libera, volu chi li diti mei beni sia dad(i) p(er) anima mia (e) d(e)li mei morti, cusì | comu melu parirà ali diti mei cumisarii […]

Abbiamo optato deliberatamente per tre campioni così distanti per dimostrare, sia pure cursoriamente, che i fenomeni su cui si misura la distanza dal veneziano sono in definitiva i medesimi e che ciò che cambia sono soltanto la distribuzione e l’intensità dei tratti non veneziani. Per es. per gli esiti di -nj-, Give presenta sinori (anche oni da -mn-, dove però in linea di principio avremmo potuto avere assimilazione e quindi scempiamento), Marino presenta invece signoria, Nicola pervignandu (con estensione del tema palatalizzato), secondo la diffusa alternanza tra una rappresentazione con n (solo grafica o anche fonetica?) e gn che rappresenta invece sicuramente una nasale palatale. Se passiamo a -lj-, nesso che ha uno sviluppo per certi versi parallelo a quello di -nj- nei testi di Dalmazia, Give presenta filio, che non offre indicazioni utili, mentre Nicola presenta fiol, fioli, ma anche melu, muler e volu (supponendo plausibilmente una base *voleo). Di nuovo non è chiaro se l abbia un valore grafico per una laterale palatale, come suggerirebbe il suo uso nel lessico di origine slava, o fonetico per una laterale alveolare, ma ciò che importa è che l’oscillazione in Nicola de Çadulin si ripresenti anche nei testi di Ragusa pur con distribuzioni diverse tra scrivente e scrivente (cfr. Dotto 2008c, 148-151).

Una comparazione tra le scriptae venezianeggianti di Ragusa e Zara nel XIV secolo è possibile solo per gli scriventi al di fuori della cancelleria, perché la documentazione zaratina appartiene quasi esclusivamente a questo settore. Infatti, le testimonianze zaratine in volgare sono per lo più costituite da inventari di beni, da note autografe di procuratori del Comune e da cedole testamentarie, nelle quali, diversamente da quanto succede a Ragusa, l’emergenza del volgare non sembra dipendere da condizioni eccezionali come la peste. Il resto comprende quaderni, cedole, lettere, ma si tratta molto spesso di una documentazione perduta, come si ricava dall’inventario post obitum del mercante zaratino Micoville di Piero (1385). L’importante registro fornisce un inventario non solo dei beni mobili e immobili, ma anche dell’archivio di Micoville, identificando ciascun documento o quaderno con una breve descrizione e una citazione essenziale delle parti iniziali e finali.37 Molte di queste citazioni sono in volgare, per almeno una cinquantina di unità, a dimostrazione del fatto che scrivere in volgare a Zara era una prassi molto radicata presso alcuni gruppi sociali.

A Zara, i pochi testi in volgare di ambito cancelleresco sono reperibili nei registri della Curia maior civilium e sono costituiti quasi esclusivamente dalle deposizioni dei cittadini. Eccone un esempio (5 ottobre 1366):38

Ego Maurus filius s(er) Stephani de Rasol (et) Marchus | de Pumo ta(m)q(ue) p(ro)cur(ator) (et) p(ro)cu(rator)io no(m)i(n)e Michse de Rasollo | civis Jadre. Sì jntendemo p(ro)var in la question che | avemo cun Çanin Riçu de una sucession de Collane | fiolo che fo de s(er) Moro de Cosiça, camçiler chi fo de | comune de Çara p(er) lo modo jnfrasc(r)ipto. |

Jnp(r)ima sì jnte(n)dimo p(ro)var como questo dicto Çanim Riçu | non stete mè in Çara, nì so pare, ancha steti a Laurana, | onvero in so distreto, e no fé ma’ faciom de Çara. | E questo jntendo p(ro)var p(er) s(er) Pet(r)o Susella, p(er) s(er) Çuve | de S(er)çge (e) s(er) Tomaso Starre. | Ancora jnte(n)dimo prova(r) como q(ue)sto d(i)c(t)o Çanin, qua(n)do fo guera | da comum de Zara a quilli da Venesia, questo dicto Zanin | sì fasiva tuto mal che lu podeva in cançarolle (e) i(n) plati, | e cun l’armada de Viniciani a Çara e a so destreto. E q(ue)sto | jntendo p(ro)var p(er) s(er) Çue de S(er)çie. […]

Casi come questo sono comunque rarissimi e si devono all’iniziativa dei singoli cittadini, non della cancelleria che di norma registrava in latino gli atti di questo tipo. A differenza della cancelleria di Ragusa, quella di Zara, tenacemente latina, non elaborò nel XIV secolo modelli di comunicazione in volgare. La tradizione della scripta venezianeggiante a Zara, con la sua relativa autonomia, è quindi da contestualizzare nel quadro di un contatto linguistico essenzialmente libero da una mediazione istituzionale.39 Tuttavia le dinamiche individuali di questo contatto non sono uniformi e alcune scritture mostrano una maggiore aderenza al modello veneziano, come nel caso del testamento autografo del patrizio zaratino Bartule de Çuve de Cipriano del 30 maggio 1369 (si cita da Dotto/Vuletić 2018, 877):

[1v] […] Ano la i(n)carnac(ione) del n(ost)ru Signo(r) | miijclxix, i(n)dic(ione) viij, dì penultim(o) del mes de macio. Jo B(ar)tul[e] de Çuve de Cip(r)iano, | co(n)siderando lo pericol dela mo(r)t(e) e no(n) voliando ch(e) li mey beni romani|sino i(n)disordinadi, sì vols(i) fare lo mio testam(en)t(o). El [q]uale façio (e) or|dino i(n) quist(o) modu. Jnprima volio e las(o) mey comisarij s(er) Çoane de | Va(r)icas(i), s(er) D(omi)nigo de Nas(i) e s(er) Pero so frar, li qualli volio ch(e) abia plena | libe(r)tà e bailia da i(n)tromiti(r) tut(i) li mey beni mobili e inmobili, | ‹e› fare, distribui(r) i(n) tut(o) sego(n)do chomu sirà ordinà p(er) mi. […]

La scripta venezianeggiante di Spalato si allinea grosso modo a quella zaratina dal punto di vista delle tipologie testuali. Della ventina di testi editi da Praga (1927), la maggioranza proviene da non professionisti. Pure la fisionomia linguistica della scripta spalatina è nel complesso vicina alla tradizione zaratina. Lo stesso vale per i due testi volgari prodotti a Traù, uno del 1340 e l’altro del 1385, conservatisi in un’edizione seicentesca a cura dell’erudito locale Giovanni Lucio (1674, 202).

3.3. Problemi di repertorio

I testi del XIV secolo, al netto della decimazione della documentazione, permettono di capire quanto fosse radicata la prassi di scrivere in volgare presso patrizi e mercanti da Zara a Ragusa e quanto questa fosse soggetta alla variazione e alla libertà di scrivere. Non se ne può dedurre, però, la composizione di repertori individuali. Nel caso degli autografi è solo possibile affermare che un individuo si serve del volgare in una determinata tradizione discorsiva. È stata opportunamente rilevata la necessità di spostare l’attenzione dalla tradizione discorsiva alla provenienza degli scriventi e di formulare ipotesi sui loro repertori partendo dalle loro biografie (cfr. Krefeld 2013, 9; Schwägerl-Melchior 2014, 46). Nel caso dei nostri scriventi trecenteschi, però, il primo indizio di provenienza è fornito dal dato onomastico, cui potrà seguire, nei casi più fortunati, un frammentario quadro biografico ricostruito grazie alla ricerca storico-archivistica. Ma che significato avrà avuto la biffatura del nome Damiano, sostituito nell’interlinea da Domagna, nella intitulatio di una lettera originale dello stesso Damiano/Domagna di Grubessa di Scrigna (famiglia del popolo di Ragusa) al conte e ai giudici nel 1332?40 La lettera fu scritta presso il potrontio di Valona, dove Domagna era trattenuto, «che so(n) debidor questi dr. alo potro(n)tio, (e) sì me te(n) i(n) va(r)dia i(n) presençia de s(er) Michel de Dersa (e) de Nicola de Pobrata». Purtroppo, non sappiamo se la lettera sia anche autografa e più ancora quale sia la ragione dietro il tratto che ha cancellato il nome Damiano. O ancora: quale sarà stato l’esatto referente di latino nella disposizione testamentaria di Marino de Pasca de Gravosa «et debiano avere p(er)sone xx latine plu nude i(n) la terra ad Ja gu(n)nella d(e) sochna»? Possiamo affermare che Marino non fosse un nobile, essendo figlio di Pasca di Gravosa/Gruž, ma non possiamo andare oltre (cfr. Dotto 2008c, 30).

Con la prudenza del caso, le fonti finora pubblicate indicano che la maggioranza dei cittadini di Zara, Spalato e Ragusa nel XIV secolo fosse di origine slava e più ancora è lecito supporre che lo slavo fosse il loro sistema primario. Le testimonianze esplicite sui repertori individuali sono comunque rarissime nel XIV secolo. È noto che Paulus Marini de Paulo, rettore di Zara per diciassette mandati dal 1379 al 1407, compilò le consuetudini dell’isola di Pago «in ideoma sclavicum» e che nel 1373, quando l’isola fu sottomessa a Zara, tradusse pubblicamente dal latino al croato due lettere dirette all’universitas Pagensium, «ad hoc ut quilibet eas possit inteligere» (Miscellanea I, 11-12). Nessuna testimonianza però, diretta o indiretta, conferma che un personaggio così importante parlasse o scrivesse in veneziano, ipotesi d’altronde del tutto plausibile, vista la diffusione del volgare presso il patriziato zaratino. Il lessico dei testi può essere un indizio della composizione del repertorio degli scriventi e/o di coloro che intervengono nella trasmissione di un testo orale (cfr. Praga 1927, 106; Dotto/Vuletić 2018, 870). Ma anche qui bisogna procedere con cautela: un elemento lessicale slavo in un testo volgare potrebbe a rigore essere un semplice prestito. Inoltre, non mancano testi venezianeggianti che, prestando fede all’elemento onomastico, sorgono in un contesto slavo, ma sono del tutto privi di lessico slavo. Pertanto, in assenza di dati espliciti, il discorso sui repertori dei nostri scriventi è inevitabilmente vincolato a limiti non superabili, per cui ogni ipotesi è soggetta a congetture più o meno verosimili.

Una di queste riguarda la comunicazione tra i notai, di norma provenienti dalla penisola italiana, e le parti coinvolte nelle azioni giuridiche. Dall’assenza di testimonianze sugli interpreti, Praga (1927, 46) deduce che gli slavi di Spalato fossero tutti bilingui. Le notizie sugli interpreti ufficiali mancano anche per la Zara trecentesca.41 Viceversa l’umanista Giovanni di Conversino, cancelliere a Ragusa tra il 1383 e il 1387, si lamenta delle condizioni di vita e della necessità di ricorrere agli interpreti («per interpretem agenda omnia»).42 Ammettendo per ipotesi che i cittadini slavofoni fossero bilingui, è inverosimile che lo fossero anche le centinaia di districtuales slavi e ancora di morlacchi slavizzati che nella seconda metà del Trecento appaiono davanti ai notai di Zara. Neppure nei loro affari si menzionano interpreti. Eppure, gli interpreti c’erano, anche se la loro mediazione non è esplicitamente riconosciuta: per fare un esempio calzante, qualcuno avrà dovuto spiegare al lunigianese Petrus de Sarçana che un equus rubeus del morlacco Osrinaç Villocich si dice «bay et sclavonice rigi», fatto considerato importante per qualche motivo.43 Secondo l’ipotesi di Bartulović (2015), in questo periodo gli interpreti sarebbero da cercare tra i testimoni degli atti.44 Quando nel 1410 il Serenissimo Dominio, in risposta alla richiesta popolare, approva l’assunzione di un interprete ufficiale a Zara, poi nel 1421 a Traù, nel 1454 a Sebenico (slava ab origine), nel 1472 a Spalato, ciò non avviene a causa di un cambiamento nell’assetto etnolinguistico delle città dalmate, ma per ragioni di ordine amministrativo: l’antica autarchia legale è sostituita da un sistema burocratico fortemente strutturato, che è quello veneziano, e i cittadini non tardano a capirne i vantaggi.

In relazione all’oralità, occorre ricordare il prudente giudizio di Minervini (2008, 3311) sulla lingua dei testi “coloniali” in volgare venezianeggiante: «[…] il n’est pas évident de distinguer la mesure dans laquelle les textes reflètent ou non les pratiques communicatives de l’oralité, ni d’estimer la part du filtre graphique mis en jeu par des scripteurs alloglottes». Ci sembra, tuttavia, che l’interfaccia grafia-fonetica delle scriptae dalmate del XIV secolo rinvii a fenomeni che dovevano essere attivi almeno in parte anche nel parlato, anche se è vero che non è sempre facile ricostruire in modo particolareggiato la tradizione dei testi e classificare i diversi fenomeni.

4. Lo spazio comunicativo veneziano (e italiano) in Dalmazia nei secoli XV-XVIII

4.1. Stato della questione

A completare quanto già esposto nei  DEFAULT-DEFAULT, l’evoluzione dello spazio comunicativo italoromanzo in Dalmazia nei secoli XV-XVIII si può sintetizzare come segue: da un lato, si apprezza una rapida espansione del veneziano nell’ambito scritto, ma anche nel parlato, a giudicare non solo dalle testimonianze scritte, ma anche dall’esistenza dei nuclei venetofoni nei singoli centri in età moderna; dall’altro, una progressiva toscanizzazione della lingua scritta, che circoscrive l’uso del dialetto all’ambito orale. Ciò è possibile grazie a un’integrazione sempre più organica della Dalmazia nello stato veneziano. Se il periodo della «pace veneziana» (Raukar 2013, 71) dura ben poco, fino alle prime incursioni ottomane, il dominio della Serenissima in Dalmazia è ormai privo di opposizioni locali. Questa stabilità favorisce non solo una maggiore accessibilità e diffusione dei modelli comunicativi lagunari, ma anche una straordinaria mobilità dei dalmati, con inevitabili conseguenze linguistiche, e, nel caso di Zara, un’autentica colonizzazione linguistica. Il volgare passa dall’essere una varietà veicolare, ma essenzialmente “esterna”, ad essere una componente “interna” del repertorio linguistico regionale, soggetta a condizionamenti diastratici e diamesici. A Ragusa, autonoma dal 1358, si apprezza un’evoluzione in senso toscano per certi aspetti parallela a quella che si verifica a Venezia, ma caratterizzata da condizionamenti e risultati ben diversi: il suo «Schriftitalienisch im fremden Munde» (Bartoli 1906, vol. I, 248), che gradualmente sostituisce il volgare venezianeggiante dei secoli precedenti, non è riconducibile a «nessuna delle varietà regionali dell’italiano letterario cinquecentesco» (Muljačić 1971-1973, 16), ma rispecchia la mobilità e gli itinerari educativi della nobiltà ragusea.

Più avanti cercheremo di esemplificare questa caratterizzazione con brani di produzione scritta afferenti a diverse situazioni comunicative e tradizioni discorsive. Preliminarmente occorre ribadire i problemi di ordine documentario e metodologico che derivano dalla carenza di studi sistematici sul veneziano e sull’italiano in Dalmazia nei secoli XV-XVIII.45 Infatti l’unico studio che interessa un corpus di testi, compatto dal punto di vista cronologico e tipologico, è quello di Šimunković (1996) sull’italiano e sul croato di 52 proclami bilingui stampati nel periodo 1740-1786, ma esso è privo di un’edizione dei testi che sono alla base del lavoro. Nell’edizione del Libro d’oro della Comunità di Spalato (ZKGS I-ZKGS II), dove i documenti italoromanzi sono stati trascritti ancora dalla Šimunković, si è rinunciato a una ricostruzione della tradizione, nonché a un approfondito commento linguistico che sarebbe stato possibile con riferimento non solo al codice, ma anche agli originali conservati.46 A supplire al disinteresse dei linguisti e filologi per la documentazione dei secoli XV-XVIII soccorrono le sillogi curate da storici e archivisti, nonché i singoli documenti pubblicati soprattutto da storici dell’arte, che però presentano problemi di affidabilità filologica, talora piuttosto gravi. La massima parte della documentazione ragusea di questo periodo finora pubblicata interessa la produzione cancelleresca (cfr. per es. la silloge di Radonić 1934-1951). A questa si aggiungono le edizioni integrali di alcuni testi di carattere pratico dei secoli XV (Dinić 1957; Kovačević-Kojić 1999; Grujić 2008) e XVI (Beritić 1954). Anche per Spalato, Zara, Lesina e Curzola si dispone di singoli testi pubblicati integralmente, nonché di numerosi frammenti, apparsi come supporto documentario alle biografie di alcuni personaggi illustri.47 Partendo da questa documentazione, si capirà che quanto segue non può che essere un sondaggio filologicamente parziale dello spazio linguistico italoromanzo in Dalmazia nei secoli XV-XVIII. Nel futuro occorrerà seguire due linee: procedere con una robusta revisione filologica delle fonti già pubblicate e avviare studi destinati a colmare le lacune nella conoscenza dei testi di carattere pratico.

Una questione poco studiata è quella della toscanizzazione del volgare a Ragusa. Il confronto tra i testi degli anni 1379-1385 e le parti cinque- e seicentesche dello statuto di Lastovo/Lagosta, realizzato da Metzeltin (1988; 1996), ha certamente messo in luce gli sviluppi del linguaggio cancelleresco, ma le sorti del volgare al di fuori della cancelleria sono rimaste trascurate. Se Muljačić ha studiato i testamenti ragusei «fino al 1568, facendo anche qualche sondaggio subito dopo tale data, fino alla metà del Settecento» (Muljačić 1971-1973, 13), è vero che il grande studioso ha rinunciato alla pubblicazione di una silloge che avrebbe permesso di capire su quali tratti linguistici si fonda la sua caratterizzazione dell’«italiano coloniale» di Ragusa.

4.2. Qualche riflessione sulla diacronia della “toscanizzazione” a Ragusa

Per rimanere sulla strada tracciata da Metzeltin, occorrerebbe prendere in esame il volgare delle lettere e commissioni indirizzate dalle autorità ragusee durante i secoli XV e XVI. Come esemplificazione riportiamo il testo di una lettera del 1422, pubblicata da Bettarini (2013, 124, n. 35), perché coeva ai testi non cancellereschi di cui si dirà subito, ma anche perché ci permette di ricostruire l’identikit di un cancelliere a quest’altezza cronologica (tra le altre caratteristiche, si noti l’indicazione d’individuare un professionista «el quale habia pocho usado o praticato con veneciani»):

Nuy Rector de Ragusa con lo Pizolo Consiglio, per libertà avuta dal Magior e General Consiglio de Ragusa, alli nobili et savi ser Zupan de Bona, Aloisi di Zani de Goze et ser Michel de Zamagno, citadini nostri in Vinesa. Salude. Perché nuy avemo bisogno de un cancellier e però confidadone dela vostra prudentia et fede comettemo a vui [ed.: avin] che vuy tuti o veramente a do de vuy non siando l’altro in la terra ne dobiate trovare uno bono sufficiente et experto canzellaro che sia o tuscano o lumbardo o marchisano o dela marcha d’Anchona o forlani, el quale habia pocho usado o praticato con veneciani et non lo tollate de legi de veneciani. E praticando con quelli ve vegniran per le mane delle dette nationi, tollete information del lor esser con chi serà usadi et di che vita e fama sono. Et habiando presa information di tutto allora, con lo nome de Dio tollete e fermate quello che alla vostra prudentia parerà [ed.: parerù] esser più sufficiente a questo officio e più utile per la nostra terra, tollendo homo non troppo zovane, zoè non di men età di trenta anni et che non sia vecchio, promettendoli sin alla summa de ducati centoventi a grossi xxx per ducato al’anno, dandoli la ferma per do anni, e da lì in zuso quanto potrete per utilità del nostro Comune, tollendo persona sufficiente, come è detto, et per affitto di casa perperi xxx al’anno, dandoli la ferma de duy anni dal dì che intrarrà in barca per vegnir qua segondo la forma del sindicato, el quale ve mandemo, afforzandovi con tutti li vostri sentimenti e industrie di tor persona de la qual a vuy siegua honor e a nuy e tutti dela terra nostra, piazeri e utile e decoro commo in vuy speremo. E perché di là vien Luca de Branco, nostro cittadino, al qual havemo comesso vi diga certe cose però al ditto darete piena fede. Datum Ragusii, die xiiij octubris 1422.

Al netto di alcune soluzioni toscaneggianti, come la resistenza allo scempiamento e la sporadica conservazione delle occlusive sorde intervocaliche, il testo dimostra una salda presenza di forme veneziane, come i pronomi nuy, vuy, la desinenza -emo della quarta persona in qualsiasi classe verbale in speremo, avemo, comettemo o il gerundio con estensione analogica ‑ando in siando, habiando (ma anche tollendo, promettendo secondo un’oscillazione ben viva nel veneziano tra XV e XVI secolo: cfr. Crifò 2016, 362-363).48

Dopo trent’anni circa, in una lettera del 1451 (Radonić 1934-1951, vol. I/2, 515-520) accanto a una marea di participi toscaneggianti, si registrano esempi di quarta persona come demo, semo, gerundi con estensione analogica della desinenza atendando, fazando, metandove, condizionali comportaraveno, reputaraveno, toraveno, nonché tipi grafici e/o fonetici ancora saldamente settentrionali, come x per la sibilante sonora in raxone o l’affricata dentale sonora per gli esiti di j‑ o ‑g‑ davanti a vocale anteriore in zonzer. Si potrebbe continuare così, ma uno spoglio esaustivo e un corrispondente trattamento statistico supererebbero di gran lunga i limiti del presente contributo. Segnaliamo soltanto che questo tipo di variazione continua ancora nelle lettere e commissioni del primo Cinquecento, con una riduzione dei tratti veneziani. Mentre i participi e i gerundi di tipo veneziano spariscono, è ancora forte la variazione nelle desinenze della quarta persona: in una lettera del 1519 (Radonić 1934-1951, vol. II/1, 162-166) troviamo nei verbi della seconda classe commetemo, respondemo, tenemo, volemo accanto alla desinenza etimologica nei verbi della prima come confidamo, damo, mandamo, speramo, trovamo o a quella toscaneggiante in habiamo, e ancora le forme di chiara impronta veneziana come casone, rasone, spexa, zorno, zoxo. Va detto che la lingua della corrispondenza diplomatica costituisce un modello altamente standardizzato, e quindi rappresenta per eccellenza un codice linguistico sovraregionale, il quale «si aggancia a tradizioni discorsive consolidate» (così Montuori 2017, 199 a proposito della lingua dei carteggi diplomatici nell’Italia quattrocentesca). Nella misura in cui tale codice trasversale si avvale dei modelli toscani, il volgare veicolare di Ragusa si mostra sensibile alla toscanizzazione, anche se il modello veneziano continuerà a lungo ad esercitare la propria influenza.

Le scelte operate nella cancelleria ragusea si riflettono sull’uso privato del volgare, in particolare presso i membri del ceto aristocratico, i quali partecipano attivamente all’amministrazione della città e quindi fanno esperienza del processo di koinizzazione appena evocato. A questo punto è utile ricorrere a esempi quattrocenteschi di produzione scritta non cancelleresca, finora trascurati negli studi dedicati alla situazione linguistica di Ragusa. Vediamo un breve saggio dal quaderno di conti che il patrizio raguseo Michel de Luchari, probabilmente un discendente del Marino de Lucari de Bona incontrato nel DEFAULT, tenne durante la permanenza a Novo Brdo nel periodo 1432-1440 (Dinić 1957, 58):49

Ihus Xps amen 1438

Chonto infra me Michel de Ni. de Luchari e Iuan fradel mio prima a la vinuta di Schauonia in Raguxi per Maroie fante mio mandie di argento fino L. 25 oz. 1 s. 2 a pexo di Raguxi di la foi L. 24 oz. 3 s. 3 venduto di la a 22 pp. as. 4 per L. a 20 per oz. monta aspri L. 27 oz. 1 as. 10

E per dazio in Raguxj e nolo aspri 70. L. – oz. 3 as. 10

E a di 2 genaro 1439 per Nichola Tpizich (sic) li mandie contadi duc. doro 240 de la chambio a 35 val as. L. 35 oz. – as. –

E per aqua di partir chosto duc. 4 L. – oz. 7 as. –

E per ser Franzescho de Benexa duc. 8 L. 1 oz. 2 as. –

E a di 9 april per dito ser Franzesco lui li die de argento fin dila L. 22 oz. 6 s. 1 a pexo de Nouamonte venduto di la a pp. 22 as. 6 per L. monta aspri L. 25 oz. 4 as. –

E a di per ser Lunardo de Gorgi contadi a di 20 mago duc. doro duc. 140 aspri 35 per duc. val a 20 per oz. aspri L. 20 oz. 5 as. –

E per sua letera de avixo a Stancho fante mio ira duc. 2 doro L. oz. 3 aspri 10

E a dito 18 gugno per una sua proferta a Boxin Pribilouich L. – in Raguxi davanti guarenti doro li die duc. doro 100 a 35 per duc. L. 14 oz. 7 as. –

E per nolo de argenti de Jachomo oz. – as. 10

E per nolo de Boxin de argento oz. – as. 10

Suma L. 124 oz. 10 as. 10

foi di piu L. 14 oz. 1 as.

Si tratta di un volgare ancora compattamente estraneo agli influssi toscaneggianti a tutti i livelli d’analisi: grafico, fonetico, morfologico e lessicale. Ci limitiamo a rilevare l’ampio ricorso a x per la sibilante sonora (avixo, pexo, Raguxi), la tendenza all’apocope secondo condizioni veneziane (partir, april, val), la desinenza -iè nei perfetti deboli (mandiè) in alternanza con -ai (in altre carte del quaderno: ai, trovai).50 Ma soprattutto i pochi tratti non veneziani corrispondono ai fenomeni caratteristici della scripta trecentesca: l’esito ‑aro a fronte di ‑er da -ariu (genaro ‘gennaio’) e la sostituzione di z/ç per l’affricata dentale sonora del veneziano con g (genaro, mago ‘maggio’, gugno ‘giugno’). Si noterà anche il calco Novamonte.

Un profilo linguistico sostanzialmente identico si ricava dalle carte del quaderno tenuto dai fratelli ragusei Caboga nel periodo 1426-1433. Ecco una serie di poste per il 1433 (Kovačević-Kojić 1999, 350):51

1433

E a di primo gener, per ser Biasio d’Alegreto die aver r. per la barcha di Radisa Pobrigani ch. 139 duc. mclx go.

E die dar, per uno resto fo meso doi volte in chasa di charte/113 in charte/116 che die aver ch. 116 duc. dccviiii go. xxviii.

E die dar, a di deto per la barcha di Maroie Gugnevich die aver ch. 96 duc. ciii go.

E die dar, a di deto, per lino chanavo die aver venda ch. 67 duc. xx go.

E a di deto, per balançe die dar fo per uno vego ch. 112 duc. xx go. xxiiii.

E a di deto, per ser Polo spiçiar die aver r. ch. 113 duc. xii go. xxxi.

E a di 2 frever, per ser Biasio d’Alegreto die aver r. Bogosau Briestich ch. 139 duc. d go.

E a di 7 deto, per ser Goan Ripogl die aver r. chontadi ch. 141 duc. cxiiii go.

E a di 12 deto, per ser Maroie Pitiçich die aver r. chontadi ch. 120 duc. c go.

E a di 20 frever, per ser Tomado di Bon dia aver r. ch. 139 duc. cxx go.

E a di 28 deto, per deto ser Tomado di Bon die aver r. ch. 139 duc. clxxxxii go.

E a di 10 março, per ser Biasio d’Alegreto die aver r. per la barcha di Vlachoie Gugnevich ch. 139 duc. ccc go.

E a di 16 deto, per ser Goan Ripogl die aver r. del deto ch. 141 duc. clx go.

E a di 20 deto, per ser Ruscho di Ratcho die aver r. che vendi argento ch. 141 duc. cxii go. viii.

E a di 2 april, per çera fina die aver venda L. 3148 a duc. 6 3/4 C/15 ch. 139 duc. ccxii go.

E a di deto per Nouach Chachich die aver fo per L. 4 o. 10 s. 2 argento in oro ch. 135 duc. cxxi go. xv.

E a di 16 deto, per ser Biasio d’Alegreto die aver r. per la barcha di Radisa Pobrigani ch. 139 duc. dc go.

E a di 4 mago, per ser Radosau Utiesenovich die aver r. chontadi ch. 142 duc. cccc go.

E a di 15 deto, per ser Biasio d’Alegreto die aver r. per la barcha di Bogoie Hobradovich ch. 141 duc. cl go.

E a di 16 deto, per ser Françescho Dato die aver r. duc. 42 per la barcha di Nichsa Bigorovich ch. 131 duc. xlii go.

E a di 20 deto, per viago di Fermo die aver per la barcha di Maroie Gugnevich chonduse ser Nicholo di miser Vani ch. 135 duc. dlxx go.

E a di 25 deto, per ser Goan Ripogl die aver r. chontadi ch. 141 duc. clxx go.

E a di deto, per Turtcho piliçer die aver r. del pro ch. 3 duc. viii go.

Nel quaderno di conti dei fratelli Caboga è notevole l’attestazione dell’esito schiettamente veneziano ‑er da ‑ariu come in frever, gener, piliçer.

Chiudiamo questa breve rassegna sul volgare al di fuori della cancelleria nel XV secolo con un testo proveniente dalla silloge dei documenti relativi al cantiere del palazzo del rettore degli anni 1441-1442 (Grujić 2008), tutti trasmessi in copia cancelleresca, ma che ancora una volta dimostrano il peso del modello veneziano. Si tratta della relazione degli ufficiali del cantiere, indirizzata al Consiglio dei Pregati (Grujić 2008, 39):

Magnifici signori li officiali dela fabrica del palazo, per conseglio de maistro Nofrio, recordano ala vostra signoria: Inprima, de poder dar fornimento alo armamento del tuto, è de bisogno dare libertà ali officiali de poder fare due faciate de le colone sopra lo cortiglio e seguir a fornire li magazeni de lo fondegho chon la caxa de Benedetto et con alti membri de le abitation che vano sopra, a tale che le volte delo armamento abiano le spale, che altramente lo armamento non se poria fornire. Item fare una altra volta sopra quella volta fata ala Porta de la Ponta per dare le spale ala casa delo armamento che sia acostado alo campanile. E fazando a questo modo se porà fornire lo armamento del tuto e meter le arme dento al più tardi per tuto octobrio proximo. Item, sopra lo fato dela torre dele campane è de bisogno levare la campana granda delo conseglio del suo luogo e meterla a quello cantone delo campanile che varda inverso levante, a tale che se possa coprire la torre e fare de sotto tuto quello che aspecta ala habitation delo rectore, como la cozina, salvaroba e camere. E a questo modo fazando lo salnitrio e altro quello vorà la signoria vostra poderete ben alogar e salvar. E de più lo rector, con lo nome de Christo, porà intrar in lo palazo con la stantia soa fornida per tuto lo decembrio el più tardi.

Accanto ai tratti non veneziani, forse presenti già nell’originale o altrimenti dovuti al filtro cancelleresco, si osservano casi di sonorizzazione (poder, fondegho, acostado, fornida) e apocope (con una variazione spiccata negli infiniti), l’esito v- da w- germanico (varda), il possessivo soa, il condizionale poria, il gerundio fazando, etc.

Il vuoto delle pubblicazioni relative ai testi della seconda metà XV secolo ci porta agli inventari dall’isola ragusea di Lopud del primo Cinquecento (Beritić 1954). Non si conoscono le mani, presumibilmente locali, che hanno vergato questi testi, tramandati dai cancellieri dell’isola (preti e/o nobili ragusei). Ma nel quadro di una fisionomia linguistica già saldamente toscana, nell’inventario di Paulina relicta Marco de Biagio del 1536 (Beritić 1954, 505-506) si registrano ancora forme venezianeggianti come albeo, bazileta, carege, coverta, felsade, fogo, forfese, pizoli e pizuli, seda, stadera, talpon, tapei, zale. Queste non si devono sicuramente al cancelliere presbyter Petrus capellanus sancti Helie, perché, copiando un altro inventario del 1516 (Beritić 1954, 502-505), scrive baccilette, focho, forfici, piccoli, seta, statera, tapeti (ma anche cheba ‘gabbia’, cusina e cuzina, taieri). Questo tipo di variazione, rispetto alla quale una datazione più bassa non implica di regola una fisionomia più toscaneggiante, rifletterebbe quindi la situazione locale.

Ancora nel primo Cinquecento i testi più svariati sembrano confermare quel carattere sostanzialmente ibrido del volgare italoromanzo di Ragusa e aree limitrofe, evocato nella relazione anonima del 1555 (cfr. DEFAULT), «una lingua molto intima ma tuttavia straniera» (Muljačić 1971-1973, 14)52 , che i ragusei usavano senza essere «molto destri nel praticar con i forestieri» secondo le parole di Giustiniani (cfr. Dotto 2008c, 47). In sostanza, la particolarità di Ragusa non consiste tanto nella toscanizzazione della lingua scritta, un processo che, a ben vedere, è molto simile a quello che si svolge nella stessa Venezia, quanto nell’assenza di una venezianizzazione linguistica prolungata che nella Dalmazia veneziana porta alla creazione di stabili comunità venetofone, talora assai ampie, talaltra limitate ai ceti elitari, a seconda dei contesti locali. Mancano per ora pubblicazioni che permetterebbero di capire se a Ragusa determinate tradizioni discorsive permettevano ancora una maggior permanenza dei tratti venezianeggianti, come succede a Venezia e nella Dalmazia veneziana «oltre l’epoca nella quale il veneziano si estingue nel grosso della produzione giuridica e burocratica» (Tomasin 2001, 233). Le questioni pendenti sulla cronologia dell’italianizzazione a Ragusa sono quindi da risolvere mediante un’assidua ricerca archivistica sulla documentazione del XVI-XVII secolo.53

4.3. Il veneziano (e l’italiano) da Arbe a Curzola54

4.3.1. L’espansione funzionale del volgare

Nella Dalmazia stricto sensu la posizione del volgare, erede della varietà veicolare di cui troviamo traccia nella documentazione due-trecentesca, cambia a partire dal primo quarto del XV secolo, nel senso di una forte espansione funzionale. Al netto della resistenza del latino, il volgare diventa a tutti gli effetti una delle lingue della legge. Nel 1422 si decide «quod debeat fieri una copia statutorum Jadre in vulgari sermone pro maiori intelligentia minus intelligentium» (Orlando 2013, 22). Il volgare prospera anche nei consigli, in mezzo alle tensioni che riflettono la composizione dei repertori locali. Ragusa non è l’unico centro dell’Adriatico orientale che nel Quattrocento conobbe una “battaglia della lingua”.55 Anche se le lingue in gioco sono diverse – si ricordi che solo a Ragusa la presenza del romanzo autoctono è attestata fino alla fine del XV secolo (cfr. DEFAULT.) –, i motivi di fondo sono gli stessi. La nobiltà cittadina è ansiosa di marcare la propria identità con tutti i mezzi, anche quelli linguistici. Lo dimostra chiaramente un capitolo degli statuti di Traù del 23 maggio 1426 (Strohal 1915, 222):

Quod italica lingua et idioma latinum inter alia idiomata est merito preferenda, ad hoc ut nobiles Tragurij assuescant latino sermoni, quem alias habebant, sed longa dessuetudine derelictum est, et etiam ut dominus comes pręsens et futurus intelligant, quod in consilio disputatur, et ut iuvenes nobiles clare discant linguam prędictam, vadit pars dominorum comitis et iudicum: Quod a modo in antea nullus nobilis in generali consilio, ut nunc congregato et pro tempore congregando, audeat vel pręsumat modo alio in suis arrenghis vel sedendo super banchis loqui aliter quam in lingua latina et italico sermone, pęna solidorum quatuor pro quolibet et qualibet vice; et quilibet possit accusare et habeat medietatem dictę penę; quam quidem pęnam dominus comes pręsens et futurus sub vinculo sacramenti teneatur et debeat irremissibiliter exigere a quolibet contrafaciente.

Scomparso il romanzo autoctono, la costruzione dell’identità dei gruppi nobiliari passa attraverso «italica lingua et idioma latinum», che i giovani devono apprendere. L’esempio di Traù è estremo, ma sanzioni pecuniarie a parte, non occorre pensare che nei consigli delle altre città dalmate la situazione comunicativa fosse sostanzialmente diversa: la venezianizzazione/italianizzazione delle élites avanzava a grandi passi anche nei centri profondamente slavi, come ricorda Domenico Zavoreo di Sebenico all’inizio del Seicento: «nisi quod in privatis domibus cum pueris, mulieribus et plebeis et vix slovino nostro idiomate loquimur» (Metzeltin 1988, 556).

Crediamo che non sia necessario apportare esempi che documentino la presenza del volgare nelle tipologie testuali in cui esso è ben radicato già nel XIV secolo. Basti dire che, mentre nei testamenti l’uso del volgare corrisponde ancora a un’iniziativa privata, negli inventari post obitum il suo uso nella seconda metà del XV secolo corrisponde a un’autentica esplosione. Quello che interessa invece è la conquista delle nuove situazioni comunicative, di quelle tipologie testuali in cui il volgare era scarsamente attestato nel XIV secolo. Nell’ambito giuridico il dominio del latino è assoluto nel XIV secolo a prescindere da contate eccezioni (cfr. DEFAULT), ma a partire dal XV secolo la situazione cambia. I succosi litigi in veneziano, come quelli citati per Curzola da Schmitt (2013), si ritrovano nella documentazione di tutti i centri dalmati. A mo’ di esempio, citiamo un breve frammento dal processo tra i fratelli Cernottis nel 1488 (scrive il notaio arbesano Thoma de Stantiis):56

La dise ch(e) la mia famegla li dà fastidio et la sua no(n) li dà fastidio, la qual ogni dì sono inbriagi et se dano delle bote una co(n) l’altra. Et sì li disi vilania, et lo fameglio sì fé (con)zar trambidoi li ditti so fantesche. Pr(ò)vase p(er) m(aistr)o Bartolo barber, lo qual li medegò.

O ancora, il processo tra i sebenzani Stefano Tolinich e Matthio Smetich, in cui il cancelliere Iohannes Fraciscus de Serenis riporta sia le responsiones delle parti in causa, sia le parafrasi dei testimoni (Kolanović 1989, 379-389):57

Io prenominado pre’ Stefano, per nome mio e per nome de preditto Lucha, narro et expono contra et adversus de ditto magistro Mathio, che con zò sia cossa, che havemo uno terin posto, como de supra, el qual terin za longo tempo non ne stà lavorado, ma quando è sta lavorado, sempre è stà tegnudo e lavorado per nostri antecessori, come cossa lor, e novellamentre dito magistro Mathio per la suo autorità e à presumudo et si ha fatto lavorar dito teren in gran nostro danno e detrimento, per la qual cossa oldando nui, che dito terren vien esser lavorado per dito magistro Mathio, avemo habudo recorso a misser lo conte, el qual per la sua iustitia feci sequestrar le intrade de dito terin […]

Zorzi Sagin […] ha testificado che da che se recorda dito testimonio, che sempre quando è sta lavorado dito terren sì è stà lavorado per man de dito padre de prenominado pre’ Stefano cum suo fradelli, vilani, e da tuti de dita villa gera tegnudo e reputado dito terren de diti fradelli e sì se chiamava terrin de Tolinichi; dimandando da diti zudexi arbitri, se quel terren, che ha fato lavorar dito magistro Mathio, chiamado catun, si è stà mai lavorado in sua memoria, […] ha testificado, che da suo recordar non sa che in dito luogo fosse lavorier, ma vero è che tra terrin, che lavorava el padre de dito magistro Mathio e tra dito chatun, che adesso ha fato nuovamente lavorar dito magistro, iera uno boscho e assai de terren inculto como adesso et ancora tra dito chatun e tra dito terren del dito padre del preditto magistro Mathio ge ne uno transito deli anemali. Suvra general dretamente respoxe.

Un altro ambito dell’espansione del volgare veneziano, quasi senza precedenti nel Trecento, sono i contratti con artigiani e esperti d’arti e mestieri. Qui l’uso del volgare è destinato a colmare le insufficienze del latino, soprattutto lessicali, non solo presso le parti contraenti, ma verosimilmente anche presso i notai. Seguono esempi da Arbe (1477)58, Zara (1488)59 e Sebenico (1479)60, che confermano ancora una volta la funzione del volgare nella comunicazione interregionale, in quanto i committenti e i maestri provengono da aree diverse:

Cum sit ch(e) mag(ist)ro Christophoro Radassinic(h) callafato da Lesina, h(ab)itator in Arbe, ha (con)venuto et fatto acordo (con) Zuane Battalaga d’Arbe ch’el ditto m(agistr)o (Christo)foro sia tegniudo et far debia al ditto Zuane una barcha tuta da novo, più longa uno piè d(e) q(ue)lla d(e) m(agistr)o Steffano callafato, fradello d(e) m(agistr)o Andrea Sartya, la qual è in cantier avente q(ue)lli d(e) Signia, et larga uno piè più dela ditta barca d(e) m(agistr)o Steffano, et alta com(e) la ditta barca del ditto m(agistr)o Steffano. Et questo tuto d(e) ligniame et agud(i) del ditto mag(ist)ro (Christo)foro et lavorer, salvo lo ditto Zuan Battalaga dar debia tuta la stoppa e pegola e pyroni abexognianti ala ditta barca et li soi madieri p(er) li verzi dentro via. Item m(agistr)o (Christo)foro p(re)d(i)c(t)o far debia due man d(e) zente de fora via ala ditta barca et le verzenelle et tuto lo cor‹p›bame i(n) alteza vivo. Ite(m) m(agistr)o (Christo)foro die’ far ala ditta barca lo arboro, l’antena, lo tymone, tuto lavorad(i), excepto li ferri del tymo(n). […]

Cum pactis […] anotatis in uno scripto manu dicti ser Saladini […] cuius scripta et pactorum talis erat tenor videlicet: […] Item una balchonada cum dui colone lavorada come quela che è sula faza dela chaza di condam ser Donà de Pasin e che di lavor non sia nisuna differencia, salvo che in logo dele arme che sono di sopra ali archeti voio che stia in mj Saladin far meter arme over pinnj di piera. Etiam la piancha di soto voio sia come quela dela balchonada di doi colone di miser Damian de Cipriano e che sia larga in luce pie diexe. […] Item dito magistro Piero me de’ far de don dui fenestre di studio come quela di predito misser Damian ch’è sopra la porta di so chaza e cusì grande. Questo tuto lavora die’ esser fato di piera delle pedrare mie poste in izola di Sauro […] Item mj Saladin i debo dar etiam hogni quanto quando degnarà che vorà condur dite piere dala pedrara ala marina e cusì quando le vorà chargar in la barcha. […]

[…] iuxta tenorem vnius cedule […] scripte uti dixerunt de eorum voluntate manu magistri Andree Iurinich cimatoris […] cuius cedule tenor talis est […] Io ser Zuane Voginouoich fazo acordo cum maistro Zorzi Maignich marangon che me faza in caxa mia la chuverta e choverzela in chalcina e che me servi ben a mandamento de ogni bon maistro e che me die’ meter un grondal. E mi Zuane debo meter la calcina avanti la dita caxa e anche le pianche per grondal, e li cuppi che li debo meter in caxa o avanti caxa mia mi Zuane ale spexe mie. E che die’ far dito maistro Zorzi dui chamini, uno unolo in chamera de mio legname e chalcina e chuppi e ogni cossa, nome maistro Zorzi mete so fadiga e i manoali. E che dito maistro Zorzi non die’ chiamar a lavorar nissum altro maistro nome lui solo. […] E sia habudo dito maisto Zorzi de capara in la dita raxon livre XIIII, s. –. […]

La fisionomia linguistica di questi testi è prettamente veneziana, con la presenza attesa ma tutto sommato instabile di alcune soluzioni toscaneggianti, soprattutto nei contesti più formali. Ma sono interessanti soprattutto i casi in cui l’uso del veneziano è libero dalle convenzioni di tradizioni discorsive consolidate, e certamente privo di qualsiasi tipo di mediazione esterna. Dalla Zara quattrocentesca ci viene qualche esempio autografo che dimostra l’espansione del volgare nelle scritture più private, prova eloquente della sua funzionalità non solo veicolare. Il caso più significativo è quello dello zaratino Simon Matafarich (così nell’autografo), che ci ha lasciato in eredità una serie di ricordanze nelle carte finali di un monotono libro di conti.61 Il campione che segue è un autentico giallo politico:

[269r] 1443, a d(ì) 15 d(i) febrar. Azo dato io Simo(n) fiol d(i) s(er) Zoane Matafarich la denuzia cu(n) me’ cho(n)pare Donado d(i) Chalzina d(i)li beni d(i) Iachomo Muto a s(er) Zoane Chariiti choleteral i(n) la chamara d(i) Zara, zò iè i(n) dug scriture i(n) uno sachito, una sì è d(i) me Simon e altra sì è d(i) me’ chonpare Donado d(i) Chalzina. I(n) le qual scriture e’ se ten chomo tuti beni d(i) s(er) Iachomo Muto ve(n) a chomon d(i) Venezia chomo rebeli che sono stad(i) d(i) chomo(n) d(i) Venezia, e d(i) quista tal dinunzia io Simon voglu la mia terza parte parte che me tucha. E si per chazo no(n) se voli i(n)pazar rituri d(i) Zara sovra quisto fato, zò iè mis(er) chonte mis(er) Marcho Zen e mis(er) Zorzi Loreian chapitanio d(i) Zara e mis(er) Franzischo Emu chamer[l]ingo d(i) Zara, anchora io Simo(n) azo dato la denuzia d(i) quisti tal beni d(i) sop(r)a ali signori sindizi e proved(i)dori, zò iè mis(er) Ursato Zustiniano e mis(er) Lovrenzo Onorado, e lor dissi no(n) podimo spazar quista tal d(i)nu(n)zia i(n)fina tanto che non sì è i(n)prima d(i)terminado p(er) li ritori d(i) Zara, che i(n)prima fo data la denunzia i(n) chamara p(er) s(er) Zoane d(i) Ostoia merzar i(n) Zara. La mia denunzia chu me’ chonpare s(er) Donado d(i) Chalzina sì è segunda e se viderà qual sì è miior, o quila d(i) s(er) Zoane d(i) Ostoia over la nostra, zò iè d(i) me Simo(n) e d(i) s(er) Donado d(i) Chalzina. El d(i)to s(er) Iachomo Muto, zò iè avo d(i)l d(i)to Iachomo Muto, e s(er) Zoane Gaia avo d(i) s(er) Zoane Dugchovich tolsi Zara dile mane d(i)la dugal signoria da Venezia una note cu(n) le schale ala posta d(i) moro chontra San Chozma e Damiano. El dito s(er) Iachomo fo sua sepultura a San Franzischo e sì fo scrito sovra quila selpultura d(i)gando: «Qua zazi el nobilo homo s(er) Iachomo d(i) Zezame, qual liberò Zara d(i)le mane d(i) Viniziani nostri chrudeli nemizi, e di Santa Chorona d(i) Ungaria. El dito s(er) Iachomo prezentò Zara a· re d(i) Ungaria». Tuto quisto fo sc(r)ito sovra la sua sepultura a San Franzischo. E uno zorno andò mis(er) Zoane Lordano chonte d(i) Zara a San Franzischo p(er) vidir quista sepultura cu(n) quisti brevi scriti sovra d(i)ta sepultura, e sì li fe’ tuti desfar che no(n) se pog lezer pgù ava(n)t(i), e p(er)zò sono rebeli chrudeli d(i) chomo(n) da Venezia. E quisto scrivo io Simo(n) fiol d(i) s(er) Zoane Matafarich azò che posa mostrar li migi fioli a chomo(n) d(i) Venezia dre’ la mia morte p(er) una memoria.

Grazie a Matafarich, ci è pervenuta anche la vivace descrizione di un fenomeno naturale:

[270v] + I(n) 1430, a d(ì) 12 d(i) febrar i(n) Zara. Fo lunidì uno grando taramoto a d(ì) 14 ore. Anchora fo d(i)to zorno a d(ì) 22 ore che tuto sol schurò p(er) tal pa(r)tido che no(n) vidiva uno altro, e sì se vidiva le stele i(n) zelo, tanto fo schuro, e quisto durò uno qua(r)to d(i) ora. E quisto fo i(n) tenpo d(i) mis(er) Ma(r)cho Erizo cho(n)te i(n) Zara e d(i) mis(er) Ma(r)cho Emo chapitanio i(n) Zara p(er) la pa(r)te d(i)la dugal signoria da Venezia, ch(e) Dio la ma(n)ten i(n) bo(n) stado cu(n) tuti sogi s(er)vidori. E quisto scrivo io Simo(n) fiol d(i) s(er) Zuane Matafarich merchadante i(n) Zara p(er) uno rechordar d(i)li megi fioli.

Ad ogni modo, le ricordanze di Matafarich non si concentrano soltanto su avvenimenti eccezionali o sull’affermazione della propria lealtà alla Dominante, ma si volgono anche a problemi quotidiani, come la conservazione del vino:

[270v] 1441, a d(ì) 15 d(i) agusto i(n) Zara. Quisto sì è una memoria vera. Quando se chomenza quastar lu vino, tolite 3 ligni d(i) Sena verd(i) longi uno palmo zaschaduno e groso uno d(i)do groso e trate fora la schorza d(i) quili tal ligni che rumazi bia(n)chi e mitile dintro la buta p(er) chochun e ’l vino no(n) anderà pgù avanti a guastarse. Anchora sì è altra med(i)zina qua(n)do vino ven turbado i(n) mufa: tolite choriiandoli chrudi e mitilu i(n) uno sachito longo uno palmo e tanto groso che posa andar p(er) chochum, e falu pichar a mezu buta, e falu chanbiyar ogni x zorni i(n)fina che ’l vino tornarà claro e la mufa andarà fora. Anchora sì è terza med(i)zina qua(n)do se vino torba e ven la mufa: tolite tanti quartuzi d(i) late frischa qua(n)t’è moza sie la bute, e mitilu p(er) chochun d(i)ntro e fala be(n) misidar cu(n) uno baston. E siyando ben misidado, falu be(n) stropar chun chochun e non la tuchate i(n)fina zorni 15. A chavo d(i) zorni 15 vino vignerà ben claro chomo una stela e la mufa andarà via. Tute quiste med(i)zine tre sono vere.

L’eccezionalità dell’uso del volgare nel quaderno di Matafarich, confrontato con la documentazione zaratina coeva, non risiede solo nei temi trattati, ma anche nel suo largo allineamento alla fisionomia della scripta venezianeggiante trecentesca (cfr. DEFAULT). Sono ancora vistose le chiusure vocaliche, pur non sistematiche come in alcuni testi del XIV secolo, nonché alcune soluzioni grafiche, allo stesso modo già ben attestate nel secolo precedente, come per es. l’uso di g per [i̯]/[j] in Dugchovich (Dujković), migi ‘miei’, pgù ‘più’, pog ‘può’, sogi ‘suoi’. Il volgare di Matafarich è un indizio prezioso della variazione a livello locale, dove alcuni repertori individuali si mostrano ancora relativamente autonomi rispetto ai modelli linguistici lagunari, ma anche di ciò che Oesterreicher (1995, 491) ha chiamato «nähesprachliches geprägtes Schreiben»: si pensi solo al commovente «vino vignerà ben claro chomo una stela».

Questa dimensione ci è tramandata anche da un altro zaratino, Hieronymo Vidulich62 (ca. 1440-1499), umanista e notaio educato a Padova e copista, se non autore, del primo reperto di poesia petrarchista in croato al di fuori di Ragusa. Personaggio stravagante, i cui atti notarili sono corredati da saggi di criptografia e di versificazione, ha lasciato anche una serie di ricette. Eccone una:63

A far rafioli de capuzi. Coxi m(o)lto b(e)n li capuci in butiro. Fato q(ue)sto, pestarai poi li diti et li azonzerai dele ove, zafaran, cinamonio et garofali cu(n) un pocho di botiro. Et poi habi dela pasta p(er) la fodra a serar la dita pesta in la dita pasta. Et poi fala far un pocho de bulio. Et càvali i(n) un cadin soprazonzando del formaio e saran boni da ma(n)giare.

Appartiene sempre all’ambito della prossimità comunicativa, sebbene a una tradizione discorsiva istituzionalizzata, l’inventario dei beni di Radoi Radoslavich (1453)64 da Vodice, località nei pressi di Sebenico, nel quale uno scrivente anonimo, di cultura scrittoria piuttosto bassa, riporta le parole della vedova (verosimilmente traducendo dal croato): «gunela biava de rasa de dona forte frusta la qual porto adoso». Il testo non è poi privo di tratti caratteristici nel vocalismo: «bucali», «2 sichi p(er) aqua», «zapun», «chaselleta pizula de talpu(n)», «2 vili de dona per testa», «bisazi morlachischi».

4.3.2. «Verso l’italiano» (con approssimazioni): livelli di variazione nello scritto

Se nel paragrafo precedente si è cercato d’illustrare l’espansione quattrocentesca del volgare attraverso una serie di esempi attinenti a diverse tipologie testuali, si offriranno ora alcuni contrassegni locali di quella evoluzione «verso l’italiano» (Tomasin 2001, 134), per cui le peculiarità veneziane, nello scritto, si dissolvono progressivamente in una fisionomia sempre più toscaneggiante. La seguente rassegna, senza mirare all’esaustività, dimostrerà che neppure in Dalmazia questo processo è privo di variazioni ai diversi livelli. Un limite importante per le considerazioni che faremo è costituito dal fatto che alcuni documenti si sono conservati solo grazie a copie coeve.

Vediamo prima come evolve l’italoromanzo scritto presso tre generazioni della famiglia Hektorović/Hettoreo di Lesina, a partire dai testamenti di Hector (1467), Marin (1513) e Piero (1559), tutti e tre copie di autografi – l’ultimo è assai vivace, in quanto, oltre ai numerosi lasciti, contiene disposizioni particolareggiate sulla prosecuzione dei lavori nel palazzo di Tvrdalj:65

Io Hector quondam ser Antonio sano de la mente et de lo intelecto ma habiando paura delo judicio de Dio perché de nesuna cossa non sum più certo che dela morte et azoché li mei beni non vada per qualche rio modo et però voio che questa sia lo mio ultimo testamento […]. […] Et morando qui in Lesina overo in nel suo districto, voio che lo mio corpo sia sepellido dalo convento che [è] deli fracti predicatorj […]. […] Item lasso che sia mandà uno homo a Rechanati a Sancta Maria cum lire quatro de cera lavorada per anima mia. […] Item lasso la mia dona Lucretia dona et madona de tute le mee intrade fina che possederà lo lecto vidual et che la deba tractar bene mei et suj fiolj et se alguno deli dicti mei fioli no la vorà obedir, voi che la ’l possa cazar fora de cassa. […]

[…] Io Marin fu de messer Hettor de Liesina sano della mente et inteletto, temendo il divino giuditio […]. Et prima voglio che il mio corpo sia sepelito a Liesina in la chiesa di S. Steffano […] Item se mi in vita non comprarò, voglio sia comprata palla di ducati cinque […] per il voto ho fato sciando amalato. Item lascio che per l’anima mia sia mandato un huomo a Roma, alla Madona Sta. Maria de Recanati similiter un huomo. […] Item lascio alla mia figla natural qual siè è a Traù ducati ottanta per la sua dote in quanto io non la maridarò in vita et maridandola nulla altra cosa voglio habbia, noma tanto quanto per me per il contratto li sarrà promessi, et delle spese della mia fia mentre se marita lascio in descretione del mio figlo. […] Item nelli beni mobili lascio agli figli di miei frateli et alli figlie di mie sorelle […]. […] Dechiarando che per caso accadesse che li mei beni mobili per la conditione di sopra fatta devenissero in li miei nipoti, voglio che vivendo la mia mogier […] d’alcuno de loro in giudizio non possa esser tratta né chiamada […].

Jo Pietro Hettoreo di mes. Marin […] sano di mente et inteletto et del corpo, […] essendo certo di dover morire, et non sapendo l’hora della morte, […] faco mio testamento in questo modo. […] se mi accaderà morire in questo luogo, che sia sepolto nella chiesa di S. Pietro martire […] et se in qualche altro modo, o in patria o fuor di quella, che sia posto in deposito et poi portato et sepelito nella chiesa di S. Pietro martire, come di sopra ho ordenato. […] Voglio […] che sia mandato un uomo a Roma ad far le cerche et visitation solita per le chiese solite per l’anima mia. […] Lasso a d. Margarita, vedoa di Antonio Bistrichich da Spalato, ducati dieci, et oltra di ciò un tinazzo di mosto ogni anno, finché la vive. Et lasso a tuti soi fioli un ducato per cadauno. Et lasso a cadauno et cadauna dei miei cusini zermani et cusine zermane […]. Et lasso a cadauno figliuolo legitimo et a ciascaduna figliola legitima de tutti miei zermani et zermane, quelli et quelle che serano superstiti et superstite in tempo della mia morte, uno anello de ducatti doi […]. […] il grondal veramente da ponente correrà fina il campanello et non più, per non impedir la corda nel sonare, qual grondali siano sporti in fuori circa mezzo piè et doi dea […]. […] Et voglio che sul primo soler, che sarà sopra la cusina, sia fatta una fenestra […] et due da ponente nel muro della cusina, […] una delle qual è compita, et per l’altra sono parechiati nel portego doi soleri di pietra dura, le qual fenestre risponderanno sopra il portigo salizato […] sopra qual vi andarà una stricha per traverso, la qual serà ficada in quelli cugni di legno che si vedeno nelli soieri sovrani […]. […] Per mezo del qual soler si farà sopra il ditto portico salizato un volto […], che risponda per mezzo di quella pietra granda, che trovasi in mezzo della salizada, qual volto serà appoggiato […]. […] Oltra di ciò faco noto alla mia posterità qualmente la mittà della mia casa tramezata di muro […] è stà lassata per testamento sotto fidei comisso, ma poi è stà intromessa […g et essendoli rimasa libera, è stà poi venduta […]

Alcune caratteristiche dei tre testi potrebbero certamente derivare dai rispettivi processi di copiatura, nondimeno il quadro comparativo risulta chiaro: la lingua di Antonio è saldamente veneziana, mentre quella di suo figlio Hector si può dire toscana con tratti venezianeggianti. La lingua di Piero è fortemente toscaneggiante, ma la presenza di elementi veneziani è più vistosa che nel caso di suo padre Hector, sottoposta comunque a una spiccata variazione (per es. fiola, fioli accanto a figliuolo, figliola; portego, portigo accanto a portico; salizato accanto salizada). Ed è certamente meno orientata in senso toscano della lingua che lo scrittore dalmata usa in una lettera indirizzata al suo amico Vincenzo Vanetti (cfr. Vončina 1986, 136-139), di origine pesarese, medico a Lesina. Dal momento che mancano dettagli sui loro percorsi educativi – solo di Piero si sa che era uomo di eccezionale cultura –, è difficile dire a che cosa si debbano le differenze tra i tre membri della famiglia Hektorović, ma non sono di natura diacronica.

Altri testi di Lesina dimostrano la salda presenza della tradizione scrittoria venezianeggiante verso la metà del Cinquecento. Si tratta delle disposizioni testamentarie dei villani, vergate dai preti locali negli anni 1536-1539. Segue un frammento di un testamento del 1539, nella maldestra scrittura di Antonio Scrivanich curato de Varbagno:66

Io Stancha muiger d(e) Piero Sasovich, siando i(n)ferma delo corpo et sana d(e)la memoria, habiando bona mente, habiando tema delo divino iudicio, no(n) voiando morir senza testamento, che li megi beni no(n) andasse p(er) rio mo(do), i(n) questa forma fazo lo mio testamento. […] It(em) laso ala mia fiola Mara dugi gugne ruse et una nigra et dugii tovale et uno vardacol et une manige de pano nigro p(er) anima mia. Et questo laso ala mia fiola Mara dela dote mia, asò che sie tegnuda far dir oto mese p(er) anima mia. […] Questo sé lo mio testamento et la mia ultima voluntà. […]

La sicura scrittura di Matio de Bisigantis vicecurato de Cità Vechia, più tardi menzionato come nodaro, certamente molto venezianeggiante, è comunque meno caratterizzata, come in questo testamento del 1536:67

Jelica relicta di q(uondam) Zua(n)e de Solta, essendo infirma del corpo t(ame)n sana d(e)lo intelecto (e) non volendo morir intestada, acò che soi benj no(n) andaseno p(er) mala via […]. […] Ite(m) vol ch(e) lo suo corpo sie sepelido i(n) la jesia di S(an)cto Piero martire q(ui) in Cità Vechia i(n) la sepultura d(e)le picochare. […] Ite(m) lasa ch(e) dito suo fiol Sfetcho sie tenuto (e) obligato anuatim far dir le mise alo suo aniv(er)sario tante qua(n)te ch(e) porà p(er) a(n)i(m)a sua (e) per a(n)i(m)a di q(uondam) suo padre. […]

Tendenzialmente, quanto inferiore è la cultura scrittoria del prete-notaio, tanto maggiore è la presenza di elementi venezianeggianti. Una cultura scrittoria più salda sembra indurre una maggiore presenza di elementi toscani, come i gerundi essendo, volendo, o i participi tenuto, obligato, o ancora la distinzione tra terza e sesta persona (andaseno) nel testo di Bisigantis. Ma il testo elaborato da Scrivanich non è caratterizzato solo da un maggiore accoglimento delle particolarità veneziane. Si consideri il seguente frammento:

Manco deli megi beni, laso ali megi beni mobili et stabili, li quali laso la mia erede legitima universale Nicholò et Matio frate megi fjolj.

È fuori dubbio che il prete-notaio abbia dovuto tradurre ad hoc dal croato al volgare le parole della villana Stanka. Riconoscendo questo compito non facile, forse ulteriormente complicato dallo stato della testatrice, si deve tuttavia constatare che la frase risulta fortemente irregolare. Il che suscita la questione a proposito delle competenze linguistiche dello Scrivanich.

Con la prudenza del caso, gli esempi finora trattati sembrano suggerire che una fisionomia più o meno venezianeggiante (e viceversa: più o meno toscaneggiante) dipenda in primo luogo da fattori diastratici.

A questo punto è istruttivo prendere in esame le scritture private di una figura di vasta cultura come l’umanista spalatino Marco Marulo (1450-1524): tre lettere e i codicilli al proprio testamento.68 Il volgare delle lettere di Marulo è stato qualificato da Malinar (2004, 133, n. 82) come «essentially Venetian, which reflects a condition of advanced tuscanisation on the written level, typical of the time in which letters were created, and typical also of the time and the lack of consistence in the use of given forms». La conclusione di Malinar si basa sulla presenza dei seguenti tratti: sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche (medegarlo, fradello, fradelli, podemo, trattadello); affricate dentali in luogo delle affricate postalveolari (per la sorda: aziò, cominzata, faza, piazuto, zoè; per la sonora: lezendo, mazorizorno, zoven); scempiamento (asai, febre, graveza, butar); assenza di anafonesi (lengua); ‑ar- in luogo di ‑er- nel futuro (remandarà); [v] come esito di w‑ germanico (varentar, varentarà); esito di ‑cl‑ con affricata postalveolare (ocio); perfetto sigmatico (potessimo, domandassimo). L’importanza di questi tratti è comunque relativa rispetto ai numerosi controesempi toscaneggianti (come ammette la stessa Malinar), fino al punto che la lingua delle lettere potrebbe ugualmente definirsi come essenzialmente toscana, con numerosi tratti venezianeggianti (ma sul “gioco delle etichette”, cfr. Tomasin 2001, 93). Sta di fatto che la variazione linguistica nelle lettere di Marulo, scritte in un momento difficile della sua vita (la morte di due fratelli e della madre), e quindi presumibilmente con un minor grado di autocontrollo, è considerevole. Ma occorre rilevare l’assenza assoluta della sonorizzazione nei participi e del gerundio di tipo veneziano (si registrano solo volendo, essendo, havendo, sapendo, etc.). Dall’altro lato, nel secondo codicillo del suo testamento, si registrano livelado, comprado, stimado, accanto a numerosi participi con conservazione, e ancora altri casi di sonorizzazione/dileguo, come amea, lavorador, logo (nelle lettere loco), mario, alternanza nei gerundi, come vegnando accanto a essendomi e morendo, l’uso regolare del possessivo soi e di la quale pronome tonico di soggetto. Una parte del codicillo, verosimilmente copiata da un documento più antico, con la stima della dote della moglie di suo fratello, è molto caratterizzata in senso veneziano: troviamo numerosi casi di sonorizzazione (cavo, taiade, stimade, indorade) o dileguo (rosao, lavorà, cusio, veluo, indorà), oltre che i numerali diese, dudese, tredisi, quatordese, quindisi, disisette. Il quadro complessivo che deriva dalla comparazione delle lettere e dei codicilli sembra rinviare a una variazione diafasica: le lettere, anche se private, presentano una fisionomia più toscaneggiante.

Il patrizio zaratino Johannis de Ciprianis, morto nel 1528, doveva essere uomo di livello culturale non lontano da quello di Marulo a giudicare dalla sua biblioteca, dove fra l’altro si trovavano: «uno libreto Catulo et Propertio, Io libro de Juvenal, [...] uno libro opere de Vergilio, uno libro opere de Ovidio, [...] uno libro Marcial cum comento, [...] uno libro Comentarij de Jullio Cessare, [...] uno libro Terentio, [...] uno libro de Quintilian, [...] uno libro de Dante, [...]». A un simile cerchio dovrebbero presumibilmente appartenere Hieronimus de Cedulinis e Petrus de Calcina, che redassero il suo inventario. Eppure, a prescindere dalle consonanti doppie, con alcuni ipercorrettismi (per es. cortessana, schatolle, tella) e numerose oscillazioni (per es. casselette e casseleta, cavallo e cavalo, ferri e feri, lettiera e letiera,), nonché qualche participio con la sorda (ligata, lavorata, ma per es. fodrada, fodrà, fornida, lavorada, ligada, serada), la lingua del suo inventario rimane fondamentalmente veneziana (Miscellanea II-IV, 54-63):69

[…] Una casa de stacio de muro coverta de coppi, cum proprio terren, pozo, corte, scale de piera, caneva, orto, magazen, camera, cusina, sala, soffita in contrata de Santa Maria dela piazola pizola, infra suo confine. […] Dui salere de arzento pesa oncie 3½. […] Certe monede furistiere da 4, da doi et da 12 oncie. […] Uno tenarol con un temperarin. […] Item uno forzier coverto da pelle de cavallo, con le robbe infrascritte. Una fodra de lovi cervieri in 4 quartierj, et le viste dele manege, quattro lovj cervierj corzi. […] Una tenda de galia da pope, cum suo bancope de fustanio fodrà de canavaza fronada. […] Item una casa voda cum solo uno capenichio dentro, cum el coverto de cordovam se porta a cavalo. […] Una piera de fava menada. […] Una tavola de acipresso da magnar suso. […] 4 pezi de pozol cum dui colone lavorade.

Coevo alle scritture private di Marulo è il quaderno del patrizio zaratino Zuanne e di Lucretia Detrico (Tetricho) degli anni 1520-1533, tenuto per loro dal mercante Matheo Zapic e copiato dal notaio zaratino Augustinus Martius nel 1534 (Fabijanec 2003). Anche questo testo pratico è fortemente caratterizzato in senso veneziano, come si vede dai frammenti seguenti:70

Misser Zuanne Tetricho fo de misser Piero in Zara die dar a di 20 noembrio 1520 per resto et calculo fessimo dele partide si sue come de madona Lucretia Tetricha fessimo conto, et calculassimo insembre restano debitori L 47 depanando ogni altri conti et cusi el dito misser Zuane se sottoscriuera in zorna L … L 47 s – […]

Madona Lucretia Tetricha in Zara die dar a di 11 april 1527 per resto de una soa rason in questo a dredo fato per credidor appar a carte 151 … L 59 s 19 […]

a di 6 zener 1530 die dar per conto a mistro Gasparo marangon a bon conto dila so mercede siue so zornale die star a conzar la caxa ala tentoria s 20 e per 300 agudi picoli e per 150 agudi di Sesena L 2 s 8 tolti per essa tentoria … L 3 s 8 […]

A di 13 marzo die dar per 13 lanze haue misser Aluise questo carneual rempe in piaza con certi compagni et me haveria dado per pegno vn anello doro qual gelo reso uidrio in questo zorno val s 12 l’una … L 8 s 6

Sarebbe utile anche il confronto con l’«inventario delle robbe» che l’umanista sebenzano Fausto Veranzio (1551-1617) lasciò a Vienna nel 1585, se si potesse sapere chi ha vergato il documento.71

Al netto dei numerosi tratti toscaneggianti, vi appaiono comunque non poche forme veneziane, con sonorizzazioni come in lavoradi, salvadigo, seda, tapedi, usadi, con scempiamenti cavalo, con apocopi fodrà, linciol, ramin.

Gli inventari rimarranno a lungo la tradizione discorsiva più disponibile alla conservazione dei tratti veneziani, in un’epoca nella quale la toscanizzazione era ormai molto avanzata nelle altre tipologie testuali. Facendo un salto di oltre un secolo, nel corposo inventario delle case del mercante zaratino Guerin Guerini (1653), trasmesso in copia coeva, troviamo la seguente situazione:72

[28r] Quatro botte di magiolica negre no 4. Una seradura mezana nova no 1. Segalla stara no 1 ½. Una pezza di gavonare nove no 1. Una rifrescadora di rame no 1. Reste dinversse sutille niove di pedal no 13

Una fogheretta picola di ramo no 1. Lavor di rede da sardelle e minolle lb. 107 venetiane grosse lb. 107

Canavo di peno, cioè picolo lb. 56. Un fornim(en)to di coridori di sottovento p(er) il portigo da basso no 1. Un altro fornim(en)to di coridori p(er) la camara da maistro con un pezzo d’avantaggio no 1. Una coltra imbobià di bombaso ordinario usada no 1. Una schiavina biancha usada no 1. Doi stramazzi di lana usadi no 2. Un pagiarizzo no 1. Una felzada di lana vechia no 1. Un felce da lana di fustagno zallo e turchin con le sue fodre di tella bianca con merli […] no 1. Doi cavazzali no 2. Cerchi di fillo di ferro mezan no 8. Un paro di cavaletti da letto con le sue tavole no 1. Un paro di ferri da buffetto no 1. Una scattolla con solfere pesto di lb. no 15. Una cassetta da comodittà vechia d’albeo no 1. Un carattello novo con dintro stara doi di form(en)to inc(irca) no 1. Tre mogiazzi novi no 3. Int’un armer sotto le scalle: Feram(en)ta vechia diverssa lb. cento di pesso no 100

[28v] In soffitta: Caldiere grande de rame no 4. Suvro lb. cinquanta di peso no 50. Una zara granda d’un mozzo no 1. Un piter grande di tenuta di un mozzo no 1. Un piter de pietra grande no 1. Una pelle di manzo no1. Corde di stopazzo lb. cinquanta inc(irca) no 50. Un paro di cavedoni de ferro no 1. Un paranchetto no1. Bariletti d’inchiò novi no 12 in picoli et grandotti vintiquatro in tutto no 36. In cusina: […]

Esempi abbondanti d’ipercorrettismo rivelano uno scrivente ancora a disagio con la fonetica toscana (per es. comodittà, minolle, scattolla, segalla, sutille, carattello e il solito tella), mentre i tratti veneziani sono ancora piuttosto regolari. E facendo un altro balzo, nel 1768, nelle stime dotali copiate dal notaio zaratino Antonio Calojera (Balić/Čoralić/Novosel 2014, 39-43, 101-105, 115-121, 196-199, 220-222), a fronte di una forte pressione toscaneggiante, alcune particolarità, perlopiù lessicali ma anche fonetiche, dimostrano la forte resistenza della componente di base veneziana:

[…] Un agariol, e un dizial d’argento […] Un spadin da testa d’argento […] Altro cavezzo di stopeta di lino […] Una cadena da fuoco […] Un paglion […] Un candelier de laton con sua mochetta […] Una camisola bianca usata […]

[…] Un paro orechini d’oro con perle a zogelo […] Due cavezzi di poston color di ceresa […]

Un paro scarpe di seda […] Numero sei sugamani di canevo […] Un sugaman da testa […] Una manizza di lovo cervier […] Un letto fornito con suoi cavaletti, e tole, pagiazzo, e due stramazzi, due cusini […] Una coperta imbotida, ed una felzada […] Un ziziale d’argento da cucire […]

[…] Un camisolin di scarlatina sguarda, con mostre di seda giala, bottoni e cordon d’argento […] Un melordin di drapado de color di marasca […] Un casson di noghera […]

[…] Un fustan bianco sotil […] Una cotola di saja rossa con sua camisola compagna […] Una cassa con sua seradura […] Un paro majette piccole, e recchini […]

4.3.3. Il repertorio e l’atteggiamento linguistico nei secoli XVI-XVIII

Se la posizione occupata dal volgare di base veneziana nel repertorio nelle città dalmate fino al Quattrocento resta largamente ipotetica, per il periodo posteriore contiamo su testimonianze più solide, anche se per lo più provenienti dai rappresentanti delle élites. Una dettagliata ricerca archivistica, soprattutto nei fondi giuridici, potrebbe gettare luce sulla fortuna del veneziano anche presso i ceti popolari. Nelle campagne il bilinguismo slavo-veneziano sembra limitato a pochissimi alfabetizzati, probabilmente ai soli individui che trattengono rapporti regolari con la società urbana. Ma anche nelle città il popolo basso, almeno nella visione tramandataci dalle fonti scritte, appare come un utente passivo delle tradizioni discorsive dominate dall’italoromanzo. In questo senso è opportuno richiamare il giudizio di Barbarić (2015, 124) sul periodo 1797-1850, che vale anche per il periodo veneziano: la popolazione slavofona rappresenta, a fronte del prestigio dell’italiano nello scritto, la stragrande e inosservata maggioranza della popolazione urbana, con la sola eccezione di Zara. Comunque, una disposizione bilingue del 24 aprile 1780 sulle osterie a Zara (cfr. Šimunkovic 1996) dimostra che per il Serenissimo Dominio il plurilinguismo della capitale era un fatto da tenere in vigile considerazione. Se è vero che, come osserva Metzeltin (1988, 567), non sono chiari i modi e i tempi della formazione dei nuclei urbani venetofoni, è altrettanto vero che la maggioranza italofona a Zara, osservabile sin dai primi censimenti austriaci, non si costituì da un giorno all’altro. Essa fu legata non solo a una venezianizzazione linguistica massiccia della popolazione autoctona, non osservabile in altri centri dalmati, ma anche a un costante flusso migratorio. È un fatto osservato dal veneziano Giustiniani e, a distanza di due secoli, dallo zaratino Tanzlingher Zanotti. La particolare situazione linguistica di Zara, pace Giustiniani, «forse avviene per la frequenza de forestieri, nobili veneziani, generali, proveditori, capitanii, sopracomiti et altri, che vi praticano continuamente» (Metzeltin 1988, 556), mentre, secondo Tanzlingher Zanotti, «queste feroci e incessanti guerre radunano genti da tutte le parti del mondo in aiuto contra lo spietato e infedele Turco» (Vuletić 2017, 83).

Sulla base delle notizie storiche relative alla venezianizzazione/italianizzazione dell’aristocrazia dalmata, confermate anche nelle pratiche scrittorie dei suoi membri, interessa introdurre qualche sfumatura che permetta una migliore comprensione del funzionamento dei repertori individuali e dello spazio comunicativo, ma anche l’effettivo atteggiamento davanti alla situazione sociolinguistica locale. Vediamo alcuni esempi che riprendono in gran parte i campioni testuali visti nel DEFAULT, ma lo fanno dalla parte della spazialità del parlante.

Marco Marulo, da bravo umanista, scrive il proprio testamento in latino, ma non i codicilli attinenti agli interessi della vedova di suo fratello, che sono in volgare. Al suo miglior amico, in una confessione privata, si rivolge in volgare, lingua che tra l’altro riserva alle opere divulgative, destinate a un pubblico che supera le frontiere della Dalmazia («[…] un trattadello […] in sermon volgare, aciò chadauno possa intender», cfr. Milošević 1992). Ma entrambi hanno in comune la «lengua nostra materna», lingua nella quale Marulo compone la sua Judita (Venezia, 1521), opera che dovrebbe dimostrare «che anchora la lengua schiava ha el suo Dante» (cfr. Milošević 1992, 35). Il codice usato con l’amico non vale però per una donna: di Marulo si conservano due lettere in croato indirizzate alla benedettina Katarina Obirtić, badessa del monastero in cui si trovava sua sorella Bira (cfr. Bratulić 1998).

Il significato di questa pratica diventa più chiaro alla luce del comportamento linguistico di altri membri femminili della nobiltà dalmata. Così nel 1589 Ursulina Dobrojević (autografo: Dobroevich), cugina del patrizio zaratino Pero Begna, fa registrare il proprio testamento autografo, in croato e in caratteri latini, presso la cancelleria di Zara (cfr. Miscellanea II-IV, 78-79). Lo stesso farà nel 1686 Maria Bartulačić (o Bartolazzi; autografo: Bartulacig), figlia del patrizio e capitano di Zara Barne Bartulačić, dell’antichissima stirpe dei Grisogoni, e della nobildonna Frane Gini, di origine albanese (cfr. Anzulović 1997, 251-253). I due testamenti rinviano però a una cultura scrittoria essenzialmente veneziana (per es. per l’uso indiscriminato di g per tutta una serie di suoni palatali).

Piero Hettoreo, si è visto nel DEFAULT, ha vergato il proprio corposo testamento in volgare. È stato però un poeta in lingua croata. A sua nipote Julia, figlia di sua figlia Lucrezia, dichiara di lasciare «tutti miei libri ligati et desligati, così stampati come scritti a mano in lingua nostra dalmatina» (Vončina 1986, 150). Ed è in questa «lingua nostra dalmatina» che si conservano non soltanto i suoi versi, ma anche una lettera a un altro nobile lesignano e poeta in croato, Mikša Pelegrinović (cfr. Vončina 1986, 103-104), cancelliere ad criminalia di Zara.

L’umanista sebenzano Fausto Veranzio è cresciuto in una famiglia dove anche le donne leggevano e scrivevano italiano. Di suo zio Antonio si conservano tre lettere in toscano con qualche venatura veneziana, due dirette alla madre di Fausto e una al nonno (cfr. Sorić D. 2013, 321, 327-329, 388). L’italiano è, quindi, una lingua della famiglia. Comunque, per Fausto Veranzio, nella sua opera Xivvot nikoliko izabraniih divvicz (Roma, 1606), la “lingua nostra” («nas yazik») è il croato ciacavo, che nel suo dizionario plurilingue del 1595 viene chiamato «lingua dalmatica». In quest’ultima opera Veranzio si lamenta della difficoltà di elaborare i contenuti della scrittura: ciò è dovuto non soltanto alla sua lunga assenza dalla terra natia, ma anche al fatto che «questa lingua nostra» è «molto frammischiata con l’italiano», fino al punto che gli è stato difficile trovare «parole interamente nostre» (cfr. Vuletić 2017, 76). Una lingua materna, cioè, con la quale si sente meno a proprio agio che con il latino, nel quale compone altre opere, come le Machinae novae (1615) o la Logica nova (1616).

Alquanto enigmatica è la lettera dedicatoria del patrizio zaratino Barne Charnarutich73 († 1573) in una sua opera in croato, stampata post mortem, al già ricordato Antonio Veranzio, dove fra l’altro si legge: «Tolicho vechie da ya znam da sfitlost tvoya prisfitla, sfachoyacho xeli, gliubi, i iuzdvixe moy yezich chacho svoy […]» ‘Ancor più perché so che la tua eccellenza desidera, ama e innalza la mia lingua come la sua […]’ (Charnarutich 1586). È chiaro però che la lingua di questo capitaneus equitum croatorum al servizio della Serenissima, poi consigliere del conte veneziano della città, originario di una famiglia fedelissima a Venezia, è il croato.74

Giovanni Tanzlingher Zanotti (1651-1732), canonico e vicario generale di Zara, autore del manoscritto Vocabolario di tre nobilissimi linguaggi italiano, illirico, e latino (concluso nel 1704), è nato a Zara da una donna locale e da un mercenario tedesco. Di cultura italiana (ha studiato a Roma e Ancona), ha sviluppato un amore ardente per la lingua croata, seguace delle tendenze “puriste”. Nel proemio al suo dizionario, Tanzlingher Zanotti si lamenta di «quel detrimento della nostra lingua liburnica, dalmata, slava, croata, che cresce come loglio nel grano da queste nostre parti liburniche e dalmate, in tale modo che il croato non sa più esprimersi nella pura e naturale lingua slava, senza frammischiarla senza intenzione con l’italiano».75 Il che non gl’impedisce di redigere il proprio testamento in italiano, «di proprio pugno», in una città dove nel 1732 sarebbe stato possibile farlo e registrarlo in croato (cfr. Čoralić 1993).

Questa rassegna di personaggi illustri della storia dalmata dal XVI al XVIII secolo, ovviamente non esaustiva, ha cercato di ricostruire i loro repertori individuali a partire dalle possibilità linguistiche che si ricavano dai loro testi. Ipotesi sul repertorio, in assenza di notizie esplicite, sarebbero da dedurre dall’attività culturale di molti altri intellettuali della Dalmazia veneziana. Volti alla promozione del croato attraverso la propria attività letteraria, erano sicuramente croatofoni; come membri dei ceti elitari, erano certamente venetofoni; infine, dalle loro funzioni pubbliche si desume che avessero una competenza attiva e non solo passiva del toscano e che, naturalmente, conoscessero il latino, alcuni benissimo. Per es. il nobile sebenzano Guerino Tranquillo, notaio dal 1514 al 1553, è l’autore di una «Passione de nostro Signore [...] tutta in versi schiavi illyrici [...] item la Repressentatione della passione pur del nostro Signore in versi schiavi illyrici [...] item la Vitta del glorioso dottore della santa madre chiesa santo Gierolamo [...] pur in verso schiavo illyrico» (Miscellanea I, 40); il notaio e il canonico zaratino Simun Budineo († 1600) è l’autore di diffusissime opere spirituali in croato, nonché di versi profani e spirituali. Insomma, lo spazio comunicativo dei dalmati di ceto più alto, qualora siano bilingui o multilingui, si presenta squilibrato. Già nel parlato (perché i tratti venezianeggianti nello scritto non possono che provenire dal parlato), il repertorio linguistico di noi, come categoria, viene presentato da Marulo, Hettoreo, Veranzio o Tanzlingher Zanotti in modo da includere una lingua che viene designata come nostra e un’altra che, senza essere meno nostra nella quotidianità comunicativa, non viene designata come tale. Questa distinzione è corroborata dalle osservazioni esterne, come quelle di Giustiniani, dove la partizione degli ambiti comunicativi tra il croato e l’italoromanzo risponde sostanzialmente, ma non solo, a una divisione funzionale tra il domestico e il veicolare. Questo non significa che l’italoromanzo, in un ampio ventaglio di varietà orali e scritte, sia soltanto veicolare, ma appunto che il croato non lo è nel senso più proprio della parola. In altre parole, il croato è solo di noi, è la «lingua nostra dalmatina» per eccellenza; l’italoromanzo è anche di loro, un loro ampio che grazie al prestigio del toscano supera i limiti del veneziano. A questo punto richiamiamo alla memoria Filippo de Diversis, che già nel XV secolo descrive così l’italoromanzo in Dalmazia: «nostro idiomate italico, in quo nobiscum phantur et conveniunt». Fermo restando che siamo ancora in un periodo prenazionale, e che Marulo, Hettoreo, Veranzio, Tanzlingher Zanotti non sono croati o italiani, ma sostanzialmente cittadini della Dalmazia veneziana, in essi è palese un engagement ideologico nello spirito dell’epoca. Perché di questo si tratta quando si afferma che la lingua slava ha il suo Dante o quando si cerca di produrre un dizionario croato privo di prestiti italoromanzi. Nei primi secoli dell’età moderna la questione della lingua in Dalmazia è essenzialmente una questione della lingua croata, perché essa è priva della visibilità pubblica che dovrebbe corrispondere all’uso effettivo della lingua a causa del dominio, certo non impermeabile ma saldo, dell’italoromanzo nella comunicazione istituzionalizzata. Tuttavia, non bisogna dimenticare che una parte dei dalmati è solo venetofona/italofona, anche se le testimonianze esplicite su questo stadio provengono, allo stato attuale delle conoscenze, dal periodo delle distinzioni nazionali, non da quello della pax venetiana.

A fronte dell’integrazione di tanti peninsulari che vennero in Dalmazia per rimanervi, la pluralità del loro repertorio linguistico non è mai stata oggetto di studio. Forniamo un paio di esempi. L’opera Vila Slovinka (Venezia, 1614) dello zaratino Juraj Baraković (Giuray Barakovich) è dedicata al sebenzano Angel Giustinianovicch (Angelo Giustiniani), «figlio di sangue veneto» («Bnetaçke karvi sin»), che alla dedica risponde con versi croati (cfr. Budmani/Valjavac 1889, 2, 238). Valentino Petricioli (morto nel 1784), nipote dell’omonimo imprenditore zaratino immigrato da Brescia, ha lasciato scritture private in croato e ancora in alfabeto glagolitico (cfr. Filipi 1976, 251).

Anche il problema del repertorio delle effimere comunità composte dai soldati veneziani di lingua greca non è mai stato oggetto di studi. Ricordiamo, a mo’ di esempio, la lettera che a nome dei «chapi dela strathia [...] ala chustodia del contado de Zara» nel 1545 scrive Thodoro Borsa (Miscellanea II-IV, 63). Alcuni aspetti del repertorio della comunità arbënisht di Zara sono stati studiati da Barbarić (2015), ma solo con riferimento alla prima metà del XX secolo.

5. Compiti futuri

A margine delle sintesi di Metzeltin (1988; 1996; 2009) e dello studio di Barbarić (2015), si è cercato di offrire piste per lo studio dello spazio linguistico veneziano in Dalmazia fino al 1797 (un limite cronologico non assoluto, ma significativo) e a Ragusa fino al primo Cinquecento. Si tratta, naturalmente, di un oggetto ricostruibile solo in parte e esclusivamente attraverso la produzione scritta, a sua volta parziale e sottoposta alla codificazione delle diverse tradizioni discorsive. Al netto di queste difficoltà, il vasto patrimonio documentario degli archivi dalmati è stato appena sfiorato e rimane da investigare. Questo ha dato luogo a generalizzazioni del tutto inammissibili, sia nella storiografia linguistica italiana sia in quella croata, che continuano ad essere citate a detrimento di una migliore comprensione della storia linguistica della regione. Posto che gli scriventi del passato non si lasciano intervistare, per non parlare dei ceti popolari, il cui effettivo comportamento linguistico passa inosservato grazie al forte radicamento delle tradizioni discorsive, è tuttavia necessario rimboccarsi le maniche e dedicarsi con impegno alla ricerca d’archivio. Solo questa può permettere una ricostruzione parziale del funzionamento di uno spazio comunicativo plurilingue, verificando le ipotesi esposte nel presente lavoro. Mentre l’affermazione del volgare venezianeggiante nella Dalmazia trecentesca è stata documentata con due sillogi pubblicate (Praga 1927, Dotto 2008c) e una ancora in preparazione (cfr. Dotto/Vuletić 2018), i secoli successivi restano ancora scoperti. Ancora: le sintesi sul periodo compreso tra il XV e il XVIII secolo, anche quelle tendenzialmente imparziali, si muovono all’interno di un circolo vizioso, senza sfruttare le fonti disponibili da tempo. In particolare, le fonti giudiziarie sono una miniera inesplorata.76 Il compito è arduo e supera le possibilità di chi, con l’umile consapevolezza del tanto lavoro da fare, scrive queste linee. Ma bisogna cominciare da qualche parte.

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La ripresa dell’italiano, non priva di motivazioni storiche, deriva in primo luogo dal peso crescente del turismo di massa e più in generale dallo sviluppo degli scambi economici italo-croati. La Croazia è tra i primi paesi dell’UE per la presenza dell’italiano come lingua straniera nelle scuole: cfr. https://ec.europa.eu/eurostat/web/education-and-training/data/database.
Oltre ai dati di produzione, saranno valorizzati i dati di percezione a partire dalle osservazioni e dai giudizi metalinguistici estrapolabili da fonti di vario tipo, con l’ovvia avvertenza che la loro interpretazione dovrà passare attraverso una contestualizzazione storico-filologica (cfr. Krefeld 2018).
Basti ricordare la centralità del materiale italoromanzo nel dizionario etimologico di Skok (ERHSJ) o nell’imprescindibile contributo di Vinja (JE), in cui è costante la cura di separare i prestiti italiani da quelli veneti, di gran lunga più numerosi.
Per una caratterizzazione interna delle varietà venete in Dalmazia, cfr. almeno Ursini 1987 e 2003.
Posta l’imprescindibilità del trattamento filologico dei dati (cfr. l’incisiva esemplificazione in Stussi 1996, fondamentale anche da un punto di vista metodologico), la sincerità dialettologica di determinate tradizioni scrittorie è stata confermata ben oltre le riserve espresse dagli studiosi di orientamento linguistico. Come dimostrato da Formentin (2018), il profilo del veneziano a cavaliere tra Due e Trecento basato sui testi di ambiente mercantile è coerente con quello tracciato da Stussi (1965), fondato sulla documentazione di mano dei preti-notai veneziani.
Il quadro che cercheremo di tracciare poggia su un campione limitatissimo di una vasta produzione scritta, in massima parte ancora da investigare. In questo senso, le integrazioni saranno destinate non solo a rettificare i difetti della nostra interpretazione, ma più ancora a colmare le lacune nella conoscenza delle testimonianze (cfr. DEFAULT).
Il materiale inedito deriva in parte da una silloge di testi zaratini del Trecento in preparazione a cura di chi scrive (cfr. Dotto/Vuletić 2018), ma non è limitato a essa. Per un panorama sulla «lingua della letteratura, della scienza e dell’erudizione», rinviamo invece ai contributi di Metzeltin (1988; 1996; 2009).
Anche in assenza di una politica linguistica esplicita, le formazioni statali prenazionali possono privilegiare l’uso di determinate varietà in certe situazioni comunicative (cfr. Schwägerl-Melchior 2014, 45).
La nostra attenzione è rivolta alle località costiere e insulari. Prima della guerra di Morea (1684-1699), ampie zone dell’entroterra sono state sotto il controllo di Venezia solo nell’area di Zara (e solo fino alla guerra di Cipro, 1570-1573).
Con la denominazione “dalmatico” si raccolgono convenzionalmente le attestazioni plurime e frammentarie nello spazio e nel tempo delle varietà romanze autoctone, con l’avvertenza che una reductio ad unum pare assai problematica, senza che ciò determini la negazione di una questione “dalmatica” in seno alla romanistica (cfr. Vuletić 2015).
Per una visione panoramica del primo periodo di simbiosi slavo-romanza, cfr. almeno Crevatin 1992, Metzeltin 1988, Muljačić 1995 e Ursini 2003, con rinvii alla bibliografia di riferimento.
Cfr. Dotto 2008c, 39-46: la prima definizione del raguseo è dell’umanista lucchese Filippo de Diversis in una descrizione della città di Ragusa (1440), la seconda proviene dagli Acta consilii rogatorum (1472).
L’uso dell’aggettivo venezianeggiante risale a Folena (1968-1970, 355) e permette di sintetizzare efficacemente la base veneziana di tale scripta italoromanza e allo stesso tempo il suo allineamento solo imperfetto alla stessa scripta veneziana.
Si è parlato così di «tratti nettamente dalmatici» (Migliorini/Folena 1952, ix), di «vocalismo propriamente dalmatico» (Folena 1968-1970, 350, n. 46, 352), di «tinta linguistica dalmatizzante» (Zamboni 1976, 35). Si noti che l’evidente distanza tra un vocalismo così caratterizzato e un consonantismo tutto sommato saldamente veneziano non ha suscitato troppi dubbi presso gli studiosi. Per una storia della questione e delle diverse interpretazioni di questa documentazione, cfr. Dotto 2016, 63-71.
Per accettare questa ipotesi, occorre essere disponibili a riconoscere l’importanza dell’elemento slavo nelle città dalmate, che è innegabile alla luce delle fonti d’archivio (cfr. DEFAULT e DEFAULT).
HR-DAZD-30, Bilježnici Šibenika, b. 16/II, vol. 15.IV b1, b2, cc. 36v, 39v-40r, 47v, 54v, 55v, 56v.
È utile dettagliare la cronologia della presenza veneziana nei singoli centri, a prescindere dai periodi in cui si è verificato un cambio di regime per breve tempo: Arbe, 1116-1358, 1409-1797; Zara, 1050-1105, 1117-1180, 1202-1358, 1409-1797; Sebenico, 1322-1358, 1412-1797; Traù e Spalato, 1322-1358, 1420-1797; Lesina, 1278-1358, 1420-1797; Curzola, 1125-1180, 1254-1358, 1420-1797; Ragusa, 1205-1358.
Per i proclami bilingui nella Dalmazia veneta nel XVIII secolo, cfr. Šimunković 1990-1991, Šimunkovic 1996 (su questo corpus cfr. anche DEFAULT). Per Creta tra XV e XVI secolo, cfr. Eufe 2003, Eufe 2005.
Per il veneziano quattrocentesco, cfr. Sattin 1986. D’altronde mancano a Venezia fratture che abbiano determinato un cambiamento linguistico radicale nelle strutture della varietà lagunare (cfr. Tomasin 2019).
Di tutte le località da Arbe a Ragusa, solo Zara si presenta nell’Ottocento come una città con una predominanza di venetofoni.
«Usano le donne la lingua schiavona, con la quale parlano li altri Dalmatini, ma li huomeni et questa et la italiana. La lingua loro natia è schiava, con la quale parlano li altri Dalmatini; parlano etiam la lingua italiana con vocaboli corotti, perciochè parte usano puri vocaboli Toscani parte puri Venetiani antiqui, parte Lombardi et parte Pujesi» (si cita da Dotto 2008c, 50).
Almeno nel XIV secolo non entra nella questione l’esistenza o meno di una cancelleria slava. A Ragusa, questa non serviva alle necessità della popolazione slavofona della città o del contado (cfr. Bettarini 2013, 118), ma alla gestione dei rapporti diplomatici e più in generale giuridici con gli stati slavi dell’entroterra, in cui la cultura scrittoria latina non era radicata, diversamente dalla situazione del regno ungaro-croato, tant’è che Zara non ebbe necessità di dotarsi di una cancelleria slava (cfr. Dotto 2009, 111-115; Dotto/Vuletić 2018, 870).
Cfr. la deliberazione del Maggior Consiglio di Venezia del 25 gennaio 1532: «[…] che tutti li Nodari torranno li prieghi delli testamenti, & similiter li codicilli, siano obligati quelli scriver volgarmente, & notar quelle proprie & istesse parole, che dirà il testador […]» (si cita da Tomasin 2001, 144).
Dal Cinquecento in poi ne reca una testimonianza chiara la quantità di testi in croato e in scrittura glagolitica fra i testamenti registrati negli atti dei conti di Zara e le missive dei conti e dei provveditori generali ai giudici dei villaggi nei pressi di Zara. Cfr. i testi pubblicati nei volumi Miscellanea I e Miscellanea II-IV, e quelli inediti segnalati da Cronia 1957, 130 («Tutto un fascicolo di siffatte scritture si trova ora nella mia biblioteca privata e in quella dell’Istituto di filologia slava dell’Università di Padova»).
È una tendenza riscontrabile già nel XIV secolo, se proprio a Zara, nel 1345, abbiamo uno dei primi attestati di presenza di un testo croato in alfabeto latino: si tratta di un frammento delle regole monastiche destinate al monastero di San Domenico (cfr. Malić 1977).
È il caso rispettivamente di due cedole esemplate dallo scrivano della nave di Fredericus Teodori de Galuço / sir Felderico di Durracio dal proprio quaderno, oltre al più ampio estratto di cui si dirà subito, e della cedola contenente i crediti dei nobili Orsaçi de Çreva e Matia de Mençe per i doni fatti dal Comune di Ragusa per il matrimonio del re serbo Uroš II Milutin, o ancora delle cedole contenenti i pagamenti di Michel Gerdusii per un carico di frumento trasportato a Brskovo o l’elenco dei beni sottratti a Iohannes de Piçinego a Željezna Ploča.
Cfr. le edizioni di Folena (Folena 1968-1970, 373-375) e Dotto (Dotto 2008a). Per le altre edizioni, cfr. Dotto 2008a, 12, n. 9.
Sull’opportunità di valorizzare questa documentazione ai fini linguistici, cfr. da ultimo Formentin 2017, 3-4.
Inteso come unità minima dello spazio comunicativo, cfr. Krefeld 2004, 24-25.
Probabilmente da identificare con Helias filius Petri Pellegrini de Iadra, l’unico zaratino con questo nome negli anni ’50 del Trecento, menzionato come assente da Zara in un documento del 9 marzo 1356 (cfr. Leljak 2003, II, 358).
Cfr. Dotto 2008c, 118-120, ma su alcuni problemi ancora aperti, cfr. Dotto 2016, 71-73.
Si tratta di un’evoluzione originale della figura notarile a Ragusa, che conserva una concezione dell’istituto notarile fortemente subordinato alle istituzioni cittadine secondo la tradizione romano-bizantina, ma allo stesso tempo, a differenza di Venezia, imbocca la via di un notariato laico costituito da professionisti forestieri. Prova di questa evoluzione originale è anche la costituzione di una serie archivistica (Diversa cancellariae), che raccoglie i registri con gli atti privati rogati con il supporto del notaio-cancelliere a prescindere dalla mano del notaio (cfr. Bettarini 2013, 113-119). Anche gli estratti dai libri di bordo rammentati nel DEFAULT provengono da questa serie archivistica.
Data questa tradizione, il registro è significativo soprattutto dal punto di vista lessicale, a partire dalla copia di slavismi che documenta: bedegno ‘badanj’ / ‘tino’, biel ‘bijelj’ / ‘schiavina’, bradua ‘bradva’ / ‘ascia’, igleniça ‘iglenica’ / ‘agoraio’, etc. (Muljačić 1970-1972, 412-416).
L’edizione integrale dell’inventario è in Stipišić 2000, ma una selezione dei regesti non potrà rimanere fuori dai Testi zaratini del Trecento, in preparazione a cura di chi scrive (cfr. Dotto/Vuletić 2018, 872-874).
HR-DAZD-22 Općina Zadar, Veliki dvor zadarske komune, b. 3, fasc. 1, c. 84r. Il cancelliere che registra l’atto è Clericus Brovicti Francisci de Firmo e sarà lui il responsabile della fisionomia ibrida del testo, probabilmente copiato da una cedola.
A questo punto, ricordiamo le riflessioni di Soares da Silva (2015, 37) sulle tradizioni discorsive «svincolate da una prassi di scrittura istituzionalizzata», ossia della «mancanza di un filtro che rischi di eliminare o appiattire la molteplicità di soluzioni linguistiche che riguardano la spazialità dell’eloquio».
«Allo nobele (e) savio miser Lodoicho Moroxino honorado co(n)te de Rag(usa) (e) ala v(ost)ra co(r)te, ‹Damiano› Domagna | de Grubesa de Scrigna fidel (e) s(er)vidor v(ost)ro ma(n)do salut(em) co(n) recoma(n)daxo(n)» (si cita da Dotto 2008c, 108).
Nessuno ha mai potuto comprovare l’informazione, ripetutamente citata, secondo la quale a Zara sarebbe esistito uno scriba in lingua sclavica già nella seconda metà del Trecento (cfr. Bartulović 2015, 82).
La testimonianza rimane da approfondire perché problematica: cfr. Dotto 2008c, 30.
HR-DAZD-31, Bilježnici Zadra, Petrus de Serçana, b. III, sv. 55, c. 19r (30 luglio 1395).
Bartulović ritiene che l’ovvia preferenza dei notai per certi testimoni derivi dal fatto che questi ultimi esercitassero la funzione di mediatori linguistici. Per es., negli atti del padovano Petrus Perençanus, notaio nella Zara angioina dal 1365 al 1392, il calzolaio Johannes condam Radoslavi appare come testimone più di 500 volte nel periodo 1376-1390, mentre il patrizio Damianus de Varicassis raggiunge un record simile nel periodo 1380-1392 (cfr. Bartulović 2015, 81-82). Nelle ordinazioni testamentarie conservate da Perençanus almeno uno tra i quattro testimoni proviene dall’ambito ecclesiastico, in cui era radicata la lingua slava (cfr. Bartulović 2015, 90).
Il testamento dello spalatino Nicola de Martino de Petruci del 1400 (conservatosi in una copia del 1404), recentemente edito e commentato da Granzotto (2018), rispecchia ancora il contesto sociolinguistico anteriore alla definitiva affermazione del dominio veneziano in Dalmazia.
Questa compilazione, avviata alla fine del Cinquecento o all’inizio del Seicento (cfr. Gligo/Berket 1996, 42), a prescindere dai documenti elaborati dalle istituzioni veneziane, contiene anche esempi di produzione scritta locale, come petizioni di collettività o di privati.
Rinunciamo a un esaustivo elenco dei riferimenti bibliografici, di cui si darà notizia di volta in volta quando citeremo i diversi reperti.
Non conosciamo l’identità del cancelliere autore della copia, ma è molto probabile che fosse «tuscano» o «lumbardo». A Ragusa nel XV secolo si consolidò una certa tendenza a scegliere notai-cancellierei provenienti dalla stessa città, in particolare da Prato e Cremona (cfr. l’elenco sempre in Bettarini 2013, 137-140). In un caso o nell’altro, l’interferenza fra tratti toscani e veneziani (settentrionali) ha buone probabilità di essere a suo modo “sincera”.
Il campione è riportato secondo la trascrizione di Dinić, che non abbiamo potuto controllare sull’originale.
Cfr. Sattin 1986, 116-117 per il veneziano quattrocentesco, e Dotto 2008c, 225-226 per la scripta ragusea del secolo XIV.
Come per Dinić 1957, il campione è riportato secondo la trascrizione di Kovačević-Kojić.
In originale: «eine sehr vertraute und doch fremde Sprache».
Alla luce dei documenti sarebbe forse da riconsiderare l’idea secondo la quale l’uso delle forme venezianeggianti presso alcuni personaggi del commediografo raguseo Marino Darsa (1508-1567) sia da spiegare solo come un mezzo per ottenere l’effetto comico (cfr. Rešetar 1933, 120). Pensiamo soprattutto a quella bellissima miniatura linguistica nel secondo atto del Dundo Maroje (1551) che ci restituisce in filigrana tutta la complessità del repertorio linguistico di Ragusa: ignorando l’identità della ragusea Petrunjela, uno dei tre giovani ragusei che vagano per Roma le si rivolge in italiano: «O, quella giovene, como si chiama questa signora che sta qua?». La risposta venezianeggiante di Petrunjela: – «Xe mia signora, misser». – gli fa esclamare: «Ova para našijenka!» [‘Questa sembra delle nostre’]. Lei, al sentirlo, constata: «Po Djevicu slavnu, ono paraju našijenci» [‘Per la Vergine gloriosa, questi sembrano dei nostri’].
Per gli esempi tratti dalle fonti edite, utilizzate in questo capitolo, si mantiene la trascrizione originale dei singoli editori, con qualche minimo ritocco.
Per le celebri deliberazioni del Consiglio dei Pregati a Ragusa sulla lingua da usare nei consigli (1472), cfr. Dotto 2008c, 42-45.
Inedito. HR-DAZD-28, Bilježnici Raba, kutija 3, sv. VII, cc. 270v-274v, a c. 273r.
Si mantiene la trascrizione di Kolanović con minimi ritocchi.
Inedito. HR-DAZD-28, Bilježnici Raba, kutija 4, sv. III, c. 114v. Il notaio che registra l’atto è l’arbesano Marinus Maromanus.
Si cita da Petricioli 1969, 94-95. Il notaio che trascrive la cedola è lo zaratino Iohannes de Calcina.
Si cita da Hilje 2013, 68. Il notaio che trascrive la cedola è Antonio Campolongo.
Inedito. HR-DAZD-360, Obitelj Matafari. L’edizione è in preparazione a cura di chi scrive.
Così nell’autografo. Cfr. Petricioli 1969, 98.
HR-DAZD-31, Bilježnici Zadra, Jerolim Vidulić, b. unica, fasc. I/2, foglio sciolto. Pubblicato in Petricioli 1974, 24 in una trascrizione migliorabile, poi in facsimile in Petricioli 1987, 167.
Inedito. HR-DAZD-30, Bilježnici Šibenika, kutija 16/II, vol. 15, IV b, c. 36v.
Cfr. Zaninović 1949, 186-189; Vončina 1986, 140-152, da cui si cita. Il primo è stato copiato nel 1483 da Jacobus Eliazarus coadiutor cancelarie Lesine, il secondo nel 1514 dal cancelliere di Spalato Petrus Ferrarij, il terzo nel 1566 dal notaio di Lesina Antonio de Gazaris.
Inedito. HR-DAZD-10, Općina Hvar, sv. 31, c. 1004r-v.
Inedito. HR-DAZD-10, Općina Hvar, sv. 31, c. 993r.
Le lettere, indirizzate all’amico Hieronymus de Cipcis, edite da Milošević (1992), si conservano in una copia coeva di un altro amico di Marulo, Jacopo Grasolari, notaio e cancelliere veneziano. Pure i codicilli (cfr. Margetić 2005) sono conservati in copia cancelleresca, ma gli originali si devono allo stesso Marulo.
Si mantiene la trascrizione di Zjačić con minimi interventi. Per ragioni di spazio, non rispettiamo la disposizione originale delle singole entrate.
Anche questo campione è riportato secondo la trascrizione di Fabijanec, che abbiamo mantenuto.
Un’analisi paleografica non è possibile, dal momento che il documento, conservato nell’Archivio di Zara ancora nel 1949, risulta perduto. Cfr. l’edizione in Miscellanea I, 43-46.
HR-DAZD-20, Općina Zadar. Knez Zadra, Antonio Alvise Marcello (1653-1655), knj. I, cc. 26v-32v. Edizione parziale in Sorić S. 2013, 88-90. Come nel caso dell’inventario di Johannis de Ciprianis, rinunciamo alla rappresentazione della disposizione originale di ciascuna entrata su una riga.
Così nella sottoscrizione. Nelle fonti in volgare: Bernardin Carnaruti.
I Charnarutich/Carnaruti furono cacciati da Zara nel 1358 e dopo il 1409 premiati per la loro fedeltà alla causa veneziana.
Traduzione dal croato.
Tuttavia non bisogna aspettarsi risultati rivoluzionari. Le fonti, come per es. gli atti del cancelliere sebenzano Fantino de Cha’ de Pesaro (Kolanović 1989), non informano sulla mediazione linguistica anche quando questa è ovvia.