Sul parlante di Roma: "Se, isolatamente, il nostro informatore pronuncia correttamente sọ́le, per fonetica sintattica, dopo l dell'articolo il, la sibilante diventa fricativa (quindi il zóle). Parimenti dopo r troviamo far zí per far sí. Possiamo notare anche una certa tendenza alla lenizione delle sorde intervocaliche o dopo consonante continua: il t di fǫrte, per esempio, e quello di viaǧǧatọ́re non sono proprio delle sonore (e perciò anche nella trascrizione fonetica le abbiamo scritte con t), ma sono leggermente sonorizzate: rappresentano quindi un fonema intermedio fra la sorda t e la sonora d (ku̯ándo vídero u^ɱ viaǧǧatọ́re. . . ke ssar̨ébbe ritenúto
pi̯ú ffǫrte). Questa lenizione parziale si nota anche in fonetica sintattica nella frase il viaǧǧatóre ke ssentíva k/galdo. Caratteristici della pronuncia romana (e del resto di altre regioni d'Italia) sono l'ẹ chiuso di dovẹ́tte e la pronuncia sorda di s intervocalico di prop̨ósito (dovẹ́tte desístere del súo prop̨ósito). Notiamo anche 1'̨o aperto di d̨ópo (e p̨óko d̨ópo)." (Tagliavini 1965, 267s)

Sul parlante di Padova: "La principale caratteristica è qui il costante scempiamento delle lunghe e geminate (mant̨élo che, in una pronuncia, ancor più volgare sarebbe stato quasi mant̨éo). Gli e ed o tonici sono di timbro medio, ma alla fine nell'ultima frase l'o suona più vicino ad ǫ aperto che a ọ chiuso. Mentre l'e tonico di vento è neutro, non aperto, ma neppure chiuso, quello di či̯ẹ́lo è decisamente più vicino ad ẹ chiuso (il sóle alóra si mostó̜ nel či̯ẹ́lo). Anche questo informatore, come quello genovese, invece dell'affricata z pronuncia chiaramente s (inansi, violẹ́nsa). Chiaro anche qui, come a Genova e a Bologna, ś è sonoro in deśistere per desistere, ben sensibile in tutta l'Italia settentrionale dato che non si sente la composizione della parola (che in italiano è un latinismo). Se mancano le lunghe anche quando risultano dalla scrittura, a maggior ragione manca qualsiasi allungamento per fonetica sintattica. Caratteristica è poi, in tutto il testo, la cadenza veneta." (Tagliavini 1965, 266s)

Sul parlante di Firenze: "Nella pronuncia del nostro informatore, -k- intervocalico è nettamente aspirato [...] per esempio nella frase: "e ppợho dợp^ho il viaǧǧat^hợre, ke ssentíva háldo ...." In qualche caso il nostro informatore non aspira [...] . Così [...]  il nostro informatore pronunciando i due lit^higánti koɱvẹ́nnero fa una breve pausa fra il soggetto e il predicato e quindi non aspira il k iniziale di convennero; il nostro informatore fa chiaramente il raddoppiamento sintattico (ma ppi̯ú). Quanto all'aspirazione di t e p, essa è debolissima nel nostro informatore [...]. Il nostro informatore pronuncia invece un -g- intervocalico leggermente fricativo nella parola litiganti." (Tagliavini 1965, 261s)

Sul parlante die Bologna: "Qui notiamo subito parecchi e decisamente chiusi invece di e aperti (vẹ́nto, pretendẹ́ndo, violẹ́nza), ma alcuni e tonici sono abbastanza aperti (mantęllo). Le consonanti lunghe sono generalmente scempiate (bištičávano, viaǧatóre ecc.) ma l'l di mantéllo è più lungo, per influsso forse della scrittura. Manca assolutamente l'allungamento per fonetica sintattica (più fǫrte). La caratteristica più evidente è data però dalla palatalizzazione delle sibilanti, per cui invece di s alveodentale abbiamo un s palatalizzato [...]. E si osservi che vi è una minima differenza fra gli esse che dovrebbero essere non palatalizzati di fosse e sì e š palatale (che nella pronuncia [standard] dovrebbe essere lungo) di riuscito. Invece di ś sonoro (sia dove dovrebbe essere sonoro come in propó̯śito, sia dove dovrebbe essere sordo, ma dai settentrionali è pronunciato sonoro, come in desístere) qui abbiamo, in seguito alla palatalizzazione, quasi un ž (cioè il fonema che troviamo nel francese jour). Notiamo inoltre la pronuncia či̯ẹ́lo [con un]'i̯ chiuso invece di aperto, sia per la presenza di una semivocale i̯ (che dovrebbe essere assorbita dalla palatale precedente [...]). Notevole anche, benché poco appariscente, data la cultura dell'informatore, la pronuncia kvándo invece di ku̯ándo." (Tagliavini 1965, 263s)

Sul parlante di Genova: "La caratteristica maggiore di questa pronuncia regionale non sta
tanto nei particolari, quanto nella «cadenza» generale che fa riconoscere i Liguri fra tutti gli altri Italiani. Abbiamo qui lo scempiamento di tutte le consonanti lunghe e geminate, come in tutta l'Italia settentrionale; tuttavia nella parola mantęllo, il caratteristico ƚ velare genovese è
leggermente allungato p. es.: ke veniva inansi avọlto nel mantęƚ(ƚ)o. La pronuncia della sibilante sorda s invece dell'arffticata sorda z nelle parole inansi, violẹ́nsa è tipico delle persone incolte. Troviamo poi ẹ chiuso, non tanto quanto a Bologna, invece di aperto in vẹ́nto e in či̯ẹ́lo dove si sente anche l'elemento semivocalico non assorbito dalla palatale precedente. Invece di ọ chiuso troviamo, nella parola sole, un o medio, a volte più, a volte meno vicino ad ǫ aperto Così la prima volta, nel primo periodo: si bističåvåno un ǧórno il vẹ́nto di tramontåna e il sóle.
L'o è neutro, mentre nella frase: Il sǫle alora si mostr̨ó nel ̨čiẹ́lo.
Caratteristici sono poi gli a tendenti ad ǫ (å) [...] per esempio nella frase il viaǧatóre che sentiva kåƚdo. E l'l velare, è più sensibile in kåƚdo, un po' meno in mant̨éƚ(ƚ)o." (Tagliavini 1965, 264s)

Sul parlante di Napoli: "Fra le caratteristiche regionali notiamo, prima di tutto, la natura lunga di b e di ǧ anche in posizione iniziale (si bbističčávano un ǧǧórno); la lenizione di t in d, specialmente nel nesso nt (...). Nella forma litikanti non si tratta di un assordimento dovuto a ragioni fonetiche, ma di influsso della forma dialettale lëtëkérë. Più difficile da spiegare è strinčẹ́va invece di strinǧẹ́va (come a Catania) dato che il dialetto ha una forma con ñ. Caratteristica napoletana e meridionale in genere è la pronuncia čielo trisillaba (il sọ́le allóra si mostrǫ́ nnel čielo) [...]. Mentre il nostro informatore ha pronunciato chiaramente il sóle le prime volte, nell'ultima pronuncia il zóle." (Tagliavini 1965, 269)

Sul parlante di Cagliari: "Notiamo in questa pronuncia l'o tonico neutro o decisamente aperto invece dell'ọ chiuso (più aperto in s̨óle, viaǧǧat̨óre, all̨óra che in giọ́rno ). Notiamo poi un o che dà l'impressione di essere chiuso, invece dell'̨o aperto di propọ́sito. Osserviamo e chiuso invece di aperto in či̯ẹ́lo (dove si sente anche l'i̯ semi vocalico) e in lẹi. Hanno invece un e abbastanza chiaramente aperto altre parole, come vento, violenza, ecc. Notiamo poi la presenza di ś sonoro in deśístere come nell'Alta Italia. Caratteristica sarda è anche la lunghezza di r iniziale in rriuššíto (ki ffǫsse rriuššíto a ffar sí) e rrikonóššere. Notevole è anche la cadenza (ritmo) dell'intero discorso che però è mitigata dalla cultura dell'informatore e dal fatto che si tratta di una lettura e non di un discorso improvvisato." (Tagliavini 1965, 272)

Sul parlante di Lecce: "La prima osservazione che si presenta in questa lettura è la tendenza
alla pronuncia aperta di o chiuso (s̨ole, viaggiat̨ore, all̨ora); la tendenza alla lenizione di t, specialmente nel nesso nt, è presente anche a Lecce, per quanto in forma minore che a Napoli. La lenizione di k, in posizione intervocalica, per fonetica sintattica, ricorre nella frase ke ssentiva k/galdo. Pronuncia trisillaba, come a Napoli čiẹ́lo, ma ancor più urtante
per la chiusura completa della vocale che a Napoli è semi-aperta (il sǫle allǫ́ra si mostrǫ́ nnel čiẹ́lo). Vocale chiusa, come a Roma e a Napoli (e del resto anche nell'Alta Italia) di dovẹ́tte. A differenza di Napoli abbiamo qui la sonora non solo in prop̨óśito, ma anche in deśísstere, come nell' Alta Italia (dovẹ́tte deśísstere dal suo prop̨óśito). Notiamo anche la lieve palatalizzazione di s nel nesso str (fu kkoštretta kosí)." (Tagliavini 1965, 270)

Sul parlante di Catania: "La principale caratteristica di questa pronuncia regionale è la tendenza all'apertura degli ọ chiusi: in realtà si tratta di un o medio, ma nelle parole in cui l'uso italiano lo vuole chiuso, l'o dà l'impressione di essere aperto (si sentano ancora, all'inizio del brano le due parole giorno e sole: si bbističčavano un ǧǫrno il vęnto/do di t/dramont/dana e il sǫ́le). Notevolissima la lunghezza di b in bbističčavano mentre non si sente tanto forte quella di ǧ in ǧorno. Il passaggio di nt a nd è nettissimo in mant̨éllo (avvolto nel mand̨éllo), meno netto in vento di t/dramont/dana. Anche qui come a Napoli troviamo strinčéva invece di strinǧéva. Tutti gli s intervocalici sono sordi. Si nota poi in tutto il brano la caratteristica cadenza della Sicilia orientale." (Tagliavini 1965, 271)

Sul parlante genovese:

"A Genova le persone con forte accento regionale tendono a volgere a verso la serie labiale [...]. Qui il fenomeno è particolarmente sensibile dinanzi ad l, nel qual caso l assume un valore velare, assente nella fonologia dell' italiano corretto, ma presente in molte lingue (inglese, portoghese, polacco, russo). Questa pronuncia di al come åł si nota sulle labbra del nostro informatore genovese quando dice:" (Tagliavini 1965, 10)

"Qui troviamo, come si è detto, due [fenomeni] strettamente connessi l'uno all'altro (e si potrebbe dire infatti che l'uno è conseguenza dell'altro): la pronuncia di a velarizzato (cioè come suono intermedio fra a ed ǫ) e quella di l velare, anziché del normale l alveodentale dell'italiano [...].
Il secondo [fenomeno] di pronuncia che possiamo notare nella fonazione della vocale a sulla bocca di molti Italiani è pressoché opposto a quello rilevato poco fa. Si tratta di una tendenza alla palatalizzazione, cioè di uno spostamento del luogo di articolazione, da quello perfettamente centrale che le spetta, verso la serie palatale. Si ottiene così un fonema intermedio fra a ed ę, cioè un a che tende a ę aperto [...]. Questa pronuncia [...] di a (che [si sente] specialmente in posizione tonica ed è meno sensibile in quella atona) ricorre specialmente nelle inflessioni dialettali di quelle regioni in cui a tonico, in determinate condizioni, passa ad ä ed ę (aperto) o addirittura, come in Romagna, ad é (chiuso)." (Tagliavini 1965, 11-12)

Sul parlante bolognese:

"È interessante osservare che, mentre nelle due parole Parma e male le voci dialettali corrispondenti presentano ä (cioè un suono intermedio fra a ed ę ma, specialmente nel secondo caso, più vicino a ę (aperto) che ad a, e cioè Pärma, męl), nel secondo esempio (cane) la voce dialettale corrispondente kã̇n presenta un a più puro." (Tagliavini 1965, 12)

Sul parlante torinese:

"Si può chiaramente osservare che l'a tonico qui non è puro, ma tende verso ǫ. Tale pronuncia è più accentuata in sillaba chiusa che in sillaba aperta, specialmente dinanzi ad l lungo o complicato: per esempio la parola alto suona chiaramente ålto. Sentiamo ora, nella pronuncia dello stesso soggetto torinese, le due parole italiane che nella pronuncia [...] di tipo toscano hanno una differenza grandissima nella vocale tonica e cioè sale e sọle; per
l'allargamento dell'o chiuso di sợle, questa parola è pronunciata sǫle; per il passaggio di a tonico della parola sale ad å, cioè al suono intermedio fra a ed ǫ, le due parole tendono se non proprio a confondersi, per lo meno ad avvicinarsi:" (Tagliavini 1965, 10)

"e così pure, per le stesse ragioni, råme e Rǫma:" (Tagliavini 1965, 10)

Sul parlante torinese:

Sul parlante genovese:

"Anche un genovese presenta la pronuncia di e abbastanza stretta, come:" (Tagliavini 1965, 18)

Sul parlante bolognese:

"Più costante e più chiusa (e quindi ancor più lontana dalla pronuncia [standard]) è la dizione emiliana. Così un bolognese, anche relativamente colto, qual è il nostro informatore di Bologna, pronuncia:" (Tagliavini 1965, 18-20)

Sul parlante milanese:

"Anche un milanese tende a pronunciare ẹ chiuso invece di ę aperto, almeno nella maggior parte dei casi, ma il suo e non è così stretto come quello dei Bolognesi. Sentiamo, per esempio, una pronuncia milanese:" (Tagliavini 1965, 20)

Sul parlante padovano:

"I Veneti, che spesso non riescono neppure ad avvertire che esista una differenza fra i due timbri di e, pronunciano, per solito, un e medio, cioè neutro, né chiuso né aperto, che tuttavia, a chi è abituato a sentire ę aperto, dà l'impressione di essere chiuso. Sentiamo alcune parole [...] della pronuncia di ę aperto dalla bocca del nostro informatore padovano:" (Tagliavini 1965, 20)

Sul parlante napolitano:

"A Napoli, e in generale in Campania, il dittongo i̯ę, che in Toscana ha sempre ę (aperto) (pį̯éde, fį̯éro, ecc.) ha un e neutro che, a un orecchio abituato alla pronuncia [standard], fa l'impressione di essere piuttosto chiuso, come per esempio:" (Tagliavini 1965, 20)

Sul parlante leccese:

"A Lecce e in generale nel Salento, [...] l'e che dovrebbe essere aperto nella [...] pronuncia italiana [standard] suona abbastanza chiaramente chiuso, come appare dagli esempi pronunciati dal nostro informatore di Lecce:" (Tagliavini 1965, 21)

Sul parlante catanese:

"In Sicilia, le persone [...] pronunciano in sillaba tonica un solo e medio e quindi le parole che nella pronuncia corretta hanno ę aperto danno l'impressione di essere pronunciate con ẹ chiuso e viceversa. Sentiamo alcuni degli esempi che dovrebbero avere e tonico aperto nella pronuncia del nostro informatore di Catania:" (Tagliavini 1965, 21)

"Tale e tonico è molto vicino e quasi uguale a quello che si ode nelle parole che, nella pronuncia [standard], dovrebbero avere ẹ chiuso, per esempio, sempre nella pronuncia dell'informatore catanese:" (Tagliavini 1965, 21)

"In vẹro e nẹro sentiamo un e non del tutto chiuso, ma abbastanza stretto; invece in legno, bicicletta, di fronte alla consonante lunga o geminata, l'e ci fa l'impressione di essere addirittura aperto." (Tagliavini 1965, 21)

Sul parlante cagliaritano:

"In Sardegna, dove l'e chiuso è pronunciato correttamente, invece di ę aperto si ha un e decisamente chiuso. Sentiamo alcune parole nella pronuncia del nostro informatore cagliaritano:" (Tagliavini 1965, 21)

Sul parlante fiorentino:

"Ed ora [...] risentiamo le voci proposte nella pronuncia di un fiorentino, perfetta per ciò che riguarda il grado di apertura di e [...]" (Tagliavini 1965, 22)

Sul parlante torinese:

"Nell'Alta Italia [esiste] specialmente la pronuncia relativamente aperta di un e tonico che, nella pronuncia [standard], [è] chiuso, particolarmente in sillaba chiusa e nelle parole tronche. Sentiamo, come esempio, alcuni casi di una pronuncia aperta invece di chiusa di e tonico sulla bocca di un torinese:" (Tagliavini 1965, 25)

Il parlante genovese:

Il parlante milanese:

"in questa pronuncia [attira l'attenzione] specialmente la vocale aperta del suffisso -étto, -étta (bicicll̨étta, vend̨étta)." (Tagliavini 1965, 26)

Il parlante napolitano:

Sul parlante bolognese:

"E respingiamo con altrettanta fermezza una pronuncia come sciabola (sci-a-bola) che sentiamo sia al Nord sia al Sud, p. es. a Bologna:" (Tagliavini 1965, 58)

Il parlante catanese:

"Si sentano, per esempio, le parole buono, suono, tuono che in italiano hanno il dittongo ų̯o con ̨o aperto e che perciò sono bisillabe, nella pronuncia [...] di un napoletano:" (Tagliavini 1965, 63)

Il parlante napolitano:

Sul parlante leccese:

"Si sentano, per esempio, le parole buono, suono, tuono che in italiano hanno il dittongo ų̯o con ̨o aperto e che perciò sono bisillabe, nella pronuncia [...] di un napoletano [...] e di un leccese:" (Tagliavini 1965, 63)

Torino:

"I Piemontesi, per esempio, hanno la tendenza a pronunciare aperti gli ọ chiusi e questo solo qualche volta in armonia col loro dialetto (che dice carògna, vergògna), ma più spesso, almeno credo, per la tendenza opposta, quasi per iperurbanismo, quando, com'è nella maggior parte dei casi, il dialetto piemontese presenta come continuazione di ọ chiuso latino volgare (ō lungo e ŭ breve del latino classico) u (fjur, vuś, sul per fiore, voce, solo). Siccome ọ (chiuso) è abbastanza vicino ad u, la pronuncia con ǫ (aperto) delle voci che nel dialetto hanno u fa prohabilmente l'impressione di essere più "civile".
Sentiamo ora dalla viva voce del nostro informatore torinese le stesse voci date poco fa come modello della pronuncia di ọ chiuso:" (Tagliavini 1965, 66)

Genova:

"[Gli stessi fenomeni linguistici come in Piemonte], e probabilmente con le stesse giustificazioni, anche in Liguria dove, mentre il dialetto presenta u (da ọ chiuso) nella pronuncia regionale dell'italiano prevale ǫ aperto, quindi contro un dialettale genovese su «sole» si ha, nella pronuncia regionale italiana di Genova, forse per iperurbanismo, sǫle. Sentiamo ora alcune delle parole date poco fa come esempi di ọ chiuso nella pronuncia di un genovese poco colto:" (Tagliavini 1965, 67)

Bologna:

"A Bologna, per solito, ọ chiuso è pronunciato [secondo lo standard], ma vi sono non pochi casi singoli in cui si notano discrepanze dalla pronuncia modello di tipo toscano, per esempio:

e in generale Bologna concorda, in questi casi singoli, col resto dell'Italia settentrionale." (Tagliavini 1965, 67)

Friuli Venezia Giulia:

"Nella Venezia Giulia è diffusa la pronuncia di un o considerevolmente aperto, invece del normale ọ chiuso. I Giuliani sono, per lo più, canzonati dagli altri Veneti per le pronunce di tipo sign̨ore, profess̨ore, n̨oci invece di signọ́re, professọ́re, nọ́ci." (Tagliavini 1965, 67)

Bari:

"Il [fenomeno] di pronunciare piuttosto aperti gli ọ chiusi non è però una peculiarità dell'Italia settentrionale; lo troviamo anche nelle Puglie.
Il nostro informatore barese pronuncia, per esempio:" (Tagliavini 1965, 67)

"In pronunce ancora più aderenti al dialetto locale, si può notare una differenza del timbro di o tonico secondo la qualità della vocale finale, applicando cioè alla lingua condizioni simili a quelle della metafonesi centro-meridionale in cui l'alterazione della sillaba tonica è provocata
dalle originarie vocali finali -u ed -i." (Tagliavini 1965, 68)

Catania:

"In Sicilia esiste solo un o medio, piuttosto aperto, per cui tutte le volte che nella pronuncia [standard] ci dovrebb'essere un ọ chiuso si ha l'impressione di sentirlo aperto e viceversa tutte le volte che ci dovrebbe essere un ̨o aperto abbiamo l'impressione di sentirlo chiuso. Sentiamo dal nostro informatore catanese alcune delle parole date prima come esempi di ọ chiuso:" (Tagliavini 1965, 68)

Firenze:

"[...]sentiamo ora [...] l'intera serie degli esempi nella pronuncia di un fiorentino, pronuncia che ad onta di qualche inflessione vernacolare è, per ciò che riguarda le vocali toniche, [standard]:" (Tagliavini 1965, 69)

Roma:

Pescara:

Napoli:

Bari:

Lecce:

Catania:

Cagliari:

Firenze:

"Il nostro informatore bolognese dice, per esempio:" (Tagliavini 1965, 127)

"Ugualmente per gli zeta sordi e sonori (a parte [i fenomeni] di scambio di un fonema con l'altro [...]), sentiamo il nostro informatore bolognese:" (Tagliavini 1965, 128)

"Anche il nostro informatore torinese dice:" (Tagliavini 1965, 127)

"Parimenti per s sentiamo in tutti gli informatori settentrionali un fonema
di minore durata del normale: così l'informatore genovese dice:" (Tagliavini 1965, 128)

"quello padovano:" (Tagliavini 1965, 128)

"Così il nostro informatore catanese pronuncia:" (Tagliavini 1965, 142)

"źamba invece di zampa dove, a parte [la] sononzzazione di zeta iniziale, abbiamo anche quella di p nel nesso mp." (Tagliavini 1965, 142)

"Gran parte dell'Italia centro-meridionale non conosce il fonema b breve e lo pronuncia sempre, anche in posizione iniziale, lungo. Il nostro informatore romano pronuncia per esempio:" (Tagliavini 1965, 142)

"e parimenti il nostro informatore napoletano:" (Tagliavini 1965, 142)

"Per ciò concerne la nasale m, la grafia la tiene distinta da n, fuorché in fonetica sintattica. Qui però, a differenza di quanto avviene per il rafforzamento sintattico che presenta notevoli difficoltà, tutti gli Italiani, pur senza rendersene conto, assimilano una nasale a una labiale iniziale della parola seguente." (Tagliavini 1965, 142)

"Sentiamo, per esempio, dalla bocca di tre informatori catanesi le parole: tre, quattro, treno, tromba." (Tagliavini 1965, 150)

"Per il tipo speciale dell'erre ligure potremo sentire alcune delle voci date come esempio poco fa nella pronuncia del nostro informatore genovese:" (Tagliavini 1965, 156)

"E sentiamo le due parole caldo e palla dalla bocca di un torinese:" (Tagliavini 1965, 158)

"Oltre alla velarizzazione dell'a [...] sentiamo qui benissimo la velarizzazione di l e cioè un l più grasso, per usare un termine volgare, che segna quasi il punto di passaggio fra la laterale l e la vocale u o, per essere più esatti, la semivocale u̯. Infatti, nella maggior parte delle parlate in cui esiste questo tipo di l, è in atto o è già avvenuto un passaggio fonetico che ha portato i nessi alt, ald ecc. ad aut, aud." (Tagliavini 1965, 158)

Il parlante torinese:

"Osserviamo l'[a] pronuncia sonora di preśentire, preśervare, riśarcire, riśultare, riśolvere, cośì e perfino di vendeśi, affittaśi. Notiamo poi, [una caratteristica] che è anche di altre regioni settentrionali, la tendenza a pronunciare palatalizzato s preconsonantico (špendere, špada, štomaco)." (Tagliavini 1965, 173)

Sul parlante di Bologna:

"[...] a Bologna [...] anche ś sonoro è pronunciato palatalizzato, cioè tendente al ž [...]. Qui abbiamo non solo la sonorizzazione di ogni s intervocalico, ma, nel tempo stesso, la sua palatalizzazione. Il nostro informatore, che ha una tipica pronuncia bolognese, non dice solo, come altri Italiani settentrionali spéśo invece di spéso, ma dice addirittura quasi špéžo e dice anche škuola invece di scuola." (Tagliavini 1965, 173-174)

Il parlante di Roma:

"Qui osserviamo che tutte le volte che ci attenderemmo -s- intervocalico
sonoro abbiamo s sordo (poesìa, esame, uso)." (Tagliavini 1965, 174)

Il parlante di Napoli:

Il parlante siciliano:

Il parlante di Firenze:

Il parlante torinese:

"Tutti gli z iniziali sono pronunciati sonori quindi źampa, źio, ecc. Inoltre, quando z è intervocalico ed è scritto scempio, viene pronunciato debole e non lungo (azione e non azzione). [Troviamo] anche la pronuncia sorda di razzo per raźźo e di garzone per garźone." (Tagliavini 1965, 193)

Il parlante bolognese:

"In parecchie regioni d'Italia, mancando addirittura le affricate nel sistema fonematico dialettale, le persone poco colte tendono a sostituirle con le sibilanti. Ne abbiamo due begli esempi nei nostri informatori della Liguria e del Veneto. Ecco come pronuncia un genovese:" (Tagliavini 1965, 194)

"In parecchie regioni d'Italia, mancando addirittura le affricate nel sistema fonematico dialettale, le persone poco colte tendono a sostituirle con le sibilanti. Ne abbiamo due begli esempi nei nostri informatori della Liguria e del Veneto. [...] Ed ecco come pronuncia le stesse parole un padovano:" (Tagliavini 1965, 194)

"Qui troviamo ś (cioè s sonoro) invece di ź (cioè di z sonoro) e s (cioè s sordo) invece di z sordo. Siccome i Settentrionali tendono a pronunciare tutti gli zeta iniziali sonori, avremo ś (cioè esse sonoro) anche al posto di zeta sordo iniziale dei Toscani, sonoro degli altri Settentrionali, di zio, zingaro, ecc." (Tagliavini 1965, 194)

"Il [fenomeno] della sonorizzazione di zeta iniziale non è solo del Settentrione; esso è diffuso anche nell'Italia meridionale, dove si trova ź sonoro anche dopo l, n, r. Sentiamo le stesse parole [...] pronunciate ora dal nostro informatore napoletano:" (Tagliavini 1965, 194)

"Qui non abbiamo solo źampa, źecca, źio, ecc. ma anche [...] calźa, marźo, danźa." (Tagliavini 1965, 194)

"Il nostro informatore leccese pronuncia [...] aggiungendo alle pronunce [...] meridionali anche aźźióne, naźźióne:" (Tagliavini 1965, 194)

Sul parlante di Catania:

"Il [fenomeno] della pronuncia sonora di ogni zeta iniziale è comune anche ai Siciliani e ai Sardi, che però pronunciano [...] z intervocalico, come si può sentire dalla voce del nostro informatore catanese:" (Tagliavini 1965, 194)

Sul parlante di Cagliari:

"Il [fenomeno] della pronuncia sonora di ogni zeta iniziale è comune anche ai Siciliani e ai Sardi, che però pronunciano [...] z intervocalico, come si può sentire dalla voce del nostro informatore catanese e da quella del nostro informatore cagliaritano:" (Tagliavini 1965, 194)

Il parlante fiorentino:

Il parlante fiorentino:

"Osserviamo la pronuncia con l'occlusiva o semiocclusiva č nelle voci cena, cielo, perché sono in iniziale assoluta; in lancia, due lance perché in posizione postconsonantica; in vado a caccia, perché di quantità lunga. Osserviamo, invece, la pronuncia con la sibilante prepalatale (š) in amici, aceto, audace, Lucia e poi in socio, soci e Lucio perché in posizione intervocalica." (Tagliavini 1965, 200)

Il parlante fiorentino:

"[...] [Q]ui troviamo l'occlusiva o semiocclusiva sonora ǧ in gelo, gente, giro, perché in posizione iniziale assoluta; in mangio, perché in posizione postconsonantica; in legge e paraggi perché di quantità lunga. Abbiamo invece la sibilante prepalatale ž in cugino, esagerare, Eugenio, Parigi, perché in posizione intervocalica. E parimenti per la posizione dovuta alla fonetica sintattica, in è brava gente." (Tagliavini 1965, 201)

Sul parlante di Torino:

Il nostro informatore di Torino pronuncia, per esempio, l' breve in tutti i casi..." (Tagliavini 1965, 205)

Sul parlante di Milano:

"Il nostro informatore di Torino pronuncia, per esempio, l' breve in tutti i casi... E parimenti quello di Milano:" (Tagliavini 1965, 205)

Sul parlante di Padova:

"I Veneti, poi, hanno difficoltà a pronunciare anche l' breve. Vi sono (e più ancora v'erano in passato) persone incolte che, nello sforzo di pronunciare l', italiano, forse anche influenzate dalla grafia, pronunciavano [...] lǧ (per esempio valǧa invece di vaglia). Il nostro informatore padovano non arriva a questo punto, ma articola un l' molto [dialettale]:" (Tagliavini 1965, 205)

"Nell'Italia centrale invece di l' si ha un i̯ lungo o addirittura un doppio yod (tipo fii̯i̯o, moi̯i̯e per figlio, moglie); queste pronunce però sono considerate dialettali e trasandate e, parlando in lingua, le persone che riescono a mitigare la pronuncia dialettale, dicono abbastanza bene l' lungo." (Tagliavini 1965, 205)

Sul parlante bolognese:

"Spesso [...] udiamo, invece di una sibilante mediopalatale, una sibilante seguita da una vocale o semivocale palatale. È interessante notare che gran parte degli Italiani settentrionali, e specialmente gli Emiliani, hanno, in qualsiasi posizione, un s leggermente palatalizzato (volgarmente detto grasso) che si avvicina a š, cosicché chi ascolta ha l'impressione che essi pronuncino š quando dovrebbero pronunciare s (šale per sale, ši per sì, štare per stare); questa stessa sibilante essi pronunciano anche per š facendo sentire un i̯ quand'esso appare nella grafia (ši̯àbola invece di ššabola). In ogni caso nei Settentrionali manca sempre la lunghezza del fonema š. Sentiamo per esempio dalla voce del nostro informatore bolognese le parole:" (Tagliavini 1965, 209-211)

"Risulta chiara la presenza di un i̯ nelle voci sciabola, sciupare e la brevità del fonema, che naturalmente è più sensibile negli esempi in cui il fonema è in posizione intervocalica (ambasciata, lasciare, lascia):" (Tagliavini 1965, 211)

Sul parlante padovano:

"Circa gli stessi [fenomeni del parlante bolognese] troviamo anche in una pronuncia veneta. Il
nostro informatore padovano dice per esempio:" (Tagliavini 1965, 211)

"e pronuncia quasi si̯àbola." (Tagliavini 1965, 211)

Sul parlante catanese:

"Il [fenomeno] di far sentire anche la semivocale i̯, dove i è puramente artificio grafico, non è ignoto neppure in Sicilia. Un informatore catanese pronuncia per esempio facendo sentire distintamente un i̯ (quasi ši̯abbola, brešši̯a, lašši̯a )." (Tagliavini 1965, 211)

Il parlante torinese:

Il parlante genovese:

Il parlante bolognese:

"Parimenti breve risulta ñ nella pronuncia del nostro informatore bolognese: anzi la parola ingegnere (l'ultimo degli esempi) si avvicina moltissimo a ingeniere (e la grafia errata ingeniere è diffusissima, per influsso della pronuncia, fra le persone meno colte a Bologna)" (Tagliavini 1965, 217)

Il parlante fiorentino:

"Il k è una normale occlusiva velare sorda in cane, casa, perché in posizione iniziale assoluta; in banco (bȧnco) perché postconsonantico; è inoltre intatto dinanzi alla semivocale u̯ in quale, quanto, quando, liquore. È di grado rafforzato (cioè lungo) in ricco, bacca, acqua, giacque, tacque. È nettamente aspirato in posizione intervocalica in baco, i bachi e anche, per quanto un po' più debolmente, dinanzi ad r in acre, democratico. È invece puro in incremento, forse perché il nostro informatore si è trovato dinanzi a una parola dotta a lui poco nota o addirittura sconosciuta." (Tagliavini 1965, 224)

Il parlante fiorentino:

"Qui si nota la leggera pronuncia fricativa di g intervocalico nelle voci riga, lega. In generale la pronuncia di g velare non presenta difetti di rilievo nelle varie regioni italiane. Nella serie delle nasali, troviamo la nasale-velare ̇n che si differenzia notevolmente dalla nasale alveodentale n, normale nell'italiano comune. Mentre l'articolazione della nasale dentale n avviene, come si è visto, con un'occlusione della punta della lingua contro gli alveoli dei denti superiori, qui l'occlusione avviene col dorso della lingua contro il velo del palato (e cioè nella stessa regione in cui avviene l'articolazione delle velari) e la zona di aderenza, soprattutto ai margini, è particolarmente ampia. Nell'italiano [standard] di tipo toscano questa nasale velare rappresenta solo un fonema combinatorio, quando la nasale si trova immediatamente dinanzi a una consonante velare." (Tagliavini 1965, 231)

"L'informatore bolognese dice:" (Tagliavini 1965, 258)

Il parlante napoletano:

Il parlante catanese:

Il parlante cagliaritano: