Alla memoria di Giannino Aprile
Questo articolo deve molto alla preziosa lettura, ai consigli e al materiale bibliografico di Francesco Giannachi, e a materiali di (e discussioni con) Vito Bergamo, Matteo Rivoira, Maria Cristina Specchia, Paolo Vincenti. La responsabilità degli errori, invece, è solo mia. |
1. Lo spazio linguistico del grico
Il grico è la lingua di una delle due minoranze greche ricomprese nello spazio linguistico italoromanzo, quella che ricade nella provincia di Lecce. Spesso grico è scritto con il k, con un ragionamento anetimologico (e forse in definitiva sbagliato, almeno storicamente) a cui indulge lo stesso Gerhard Rohlfs, ma anche funzionale a motivi di scrittura: la grafia k per l’occlusiva velare sorda consente di riassorbire il digramma ch per il corrispondente del grafema greco χ senza introdurre simboli alfabetici estranei al sistema grafico abituale. Non escludiamo affatto, però, che l’uso del k risponda a motivi identitari: l’altra minoranza italogreca, quella di Calabria, ha infatti cominciato a chiamare la sua lingua greko, probabilmente per distinguerla sia dal neogreco standard sia dal grico. Oggi l’una e l’altra sono a forte rischio di estinzione.
I paesi grecofoni erano tredici fino al XIX secolo, e la gente del posto li chiamava, appunto, ta dekatrìa chorìa (i tredici paesi) anche quando erano diventati molti di meno (Pellegrino 2017, 2). Essi sono oggi in teoria nove: Calimera, Castrignano dei Greci, Corigliano, Martano, Martignano, Sternatia, Zollino, Soleto e Melpignano. Negli ultimi due il greco è estinto ormai da decenni; li si considera paesi ellenofoni solo per tradizione, oltre che per il fatto di essere inseriti in una ripartizione amministrativa istituita per legge nel 1990 (art. 25 della l. 8 giugno 1990 n. 142), il “Consorzio della Grecìa Salentina”. A Sternatia (l’unico comune ad avere un nome grico diverso da quello romanzo: Chora, letteralmente ‘terra, paese’) la lingua si mantiene meglio e ci sono anche parlanti relativamente giovani. Ci sono anche paesi non più esistenti ma un tempo greci: al centro dell’attuale area (e quindi a nord dell’area grica di qualche secolo fa) c’era un casale oggi abbandonato, Apigliano. Sulla sua importanza linguistica non siamo in grado, ovviamente, di dire niente, se non che le prove archeologiche ci raccontano di un’importanza che dev’essere stata più grande di quanto non abbiamo supposto fino a qualche anno fa.
Paesi grecofoni ■, greco estinto da decenni ■
La conformazione geomorfica del territorio della grecità residua attuale presenta un aspetto particolare, vale a dire il fatto di essere leggermente sopraelevata rispetto al territorio circostante. Intendiamoci, non stiamo parlando certo di centri arroccati sulle montagne, come in Calabria. Ma “dei nove centri grecofoni soltanto Calimera è situato ai piedi delle Serre, gli altri si articolano invece su quote comprese tra gli 80 e i 102 metri sul livello del mare. A sud-est si estende la piana di Carpignano (centro anche questo di grecità estinta) e quindi la fascia costiera che da Roca Vecchia arriva fino ad Otranto comprendendo i Laghi di Limini e le aree residue delle lunghe distese paludose che un tempo interessavano la maggior parte del litorale” (Cazzato/Costantini 1990, 15). In un passato relativamente recente, fino alla diffusione dell’automobile, quando salire a piedi doveva essere più disagevole di quanto non lo sia oggi, si tratta di un aspetto che non può non aver giocato un ruolo nella conservazione della lingua.
Quale che sia l’origine della grecità del Salento, argomento che ha tormentato i linguisti di mezza Europa durante il corso del Novecento (cfr. § 2), siamo ben informati sull’estensione dell’area della Grecìa di qualche secolo fa. Essa si è progressivamente ristretta, e insisteva in origine sulla direttrice che portava dal porto di Otranto a quello di Gallipoli. L’attuale isola grecofona era affiancata da un’altra isola, posta a meridione e imperniata su Casarano.
Le due aree erano caratterizzate da una vivacissima vita intellettuale, nel tardo Medio Evo (quando il faro di Costantinopoli era ancora presente) e nell’età moderna (quando ormai era spento).
Ancora prima, ma senza che se ne possano trarre conclusioni né sull’origine dell’ellenismo, né sulla sua diffusione, né sul popolamento dell’area, va ricordata una data topica nella storia di queste terre, il 1064, anno in cui avvenne la conquista normanna di Otranto: il greco cessa così di essere la lingua tetto della Terra d’Otranto, almeno se con questa formula, che mutuiamo dalla linguistica romanza, intendiamo l’appartenenza politica a un’entità statuale. Il che non vuol dire affatto che cessa di essere anche la lingua di cultura (le due cose non vanno necessariamente insieme, dal punto di vista sociolinguistico): vanno ricordate “la produzione di manoscritti greci fino alla seconda metà del XVI secolo, la nota attività del cenobio di Casole dal 1098-99 al 1480, la produzione in versi dei ‘poeti bizantini di Terra d’Otranto’ nel XIII secolo, la coeva presenza di scuole di lingua greca a Nardò, Soleto, Aradeo e in altri centri in cui svolgevano il proprio magistero alcuni schedografi locali e la permanenza del rito bizantino fino alla metà del XVIII secolo” (Giannachi 2012, 63-64, con la ricca bibliografia ivi indicata).
Va sottolineato inoltre un aspetto della diffusione dell’ellenismo (anche se non direttamente della lingua greca) di solito non ricordato nei lavori sul grico, ma ben presente agli storici della lingua italiana: nella Terra d’Otranto medievale le prime testimonianze di scrittura del volgare locale romanzo non sono in alfabeto latino, ma negli alfabeti delle due componenti alloglotte, quella ebraica (Cuomo 1977) e quella greca. Il più antico testo romanzo in caratteri greci è costituito dalle Sentenze morali, un adattamento salentino (con commento interpretativo) dei 59 tetrastici di Gregorio Nazianzeno risalente al primo quarto del sec. XIV (Distilo 1985 e 1995); si tratta di un testo di straordinario interesse, che ci documenta parole come στρατζαμέντου (salent. strazzare ‘lacerare’: (VDS)), τουτζαμέντου ‘urto’ (salent. tuzzare ‘urtare’), αλλουμα ‘brucia’ (salent. addumare ‘accendere’: VDS), kραϊ ‘domani’ (panmeridionale), ββελλιτζε femm. sing. ‘bellezza’, cronologicamente la prima attestazione del tipo con -e, φιέρρου ‘ferro’, con il dittongo metafonetico: si scriveva in caratteri greci, insomma, anche quando si rappresentavano contenuti romanzi (Aprile 2008a). Se consideriamo l’alfabeto latino, l’emersione del volgare avviene come minimo qualche decennio dopo; stabilmente, nel secolo successivo inoltrato.
Torniamo alla cultura propriamente greca in età tardomedievale, in cui non occorre sottolineare il ruolo di centri scrittori come Casole. Un umanista importante come il Galateo testimonia che a Nardò nel Quattrocento inoltrato la qualità del ginnasio greco era tale che “quando i Greci del Salento volevano lodare le lettere greche, affermavano che esse erano neretine tanto celebrata era la dottrina dei suoi maestri che da tutte le provincie del regno di Napoli si accorreva a Nardò e per lo studio del greco e per la correzione di testi greci” (Sicuro 1990, 9).
Quanto era grande l’area greca nell’età bizantina? Secondo il vecchio studio di Gay (1895), nel secolo XIV i centri abitati in tutto o in parte da greci nella sola diocesi di Nardò erano una trentina; nel secolo successivo erano scesi a 14. La diocesi di Otranto era ancora più ricca di centri in cui operavano sacerdoti greci: a Galatina il rito greco sopravvive fino alla seconda metà del Cinquecento, a Otranto fino al 1684; in tutti i comuni dell’attuale Grecìa siamo alla fine ufficiale entro i confini del Seicento (l’ultimo è Zollino, 1667), ma le testimonianze scritte parlano di preti coniugati (cioè greci) nel secolo successivo, quando erano paesi greci anche Bagnolo, Cannole, Caprarica, Carpignano, Cursi e, a nord di Calimera, Caprarica. La restrizione all’area attuale, con nove paesi, è dell’ultimo secolo e mezzo.
Quanto alla densità del popolamento grecofono, oggi la situazione è assai peggiorata rispetto a quella, già compromessa, degli anni Sessanta. La testimonianza di Giannino Aprile, a cui è dedicato questo lavoro (il cognome, che è anche quello dell’autore di questo articolo ma che non è un suo parente, a Calimera è poligenetico e lo vedremo ancora ricorrere parecchie volte in riferimento a persone diverse), alla fine degli anni Sessanta, sulla competenza passiva, migliore di quella attiva, e sulla diastratia del greco fotografa con nettezza la situazione pre-crisi: “non tutti quelli che lo intendono [il greco], però, lo parlano. Lo parla quasi esclusivamente il popolo, trovando più facile e naturale esprimersi nella lingua appresa dalla nascita. Gli altri lo parlano solo quando non vogliono farsi capire dai forestieri che talvolta, però, ricambiano la cortesia definendoli, spregiativamente, “gente cu doi lingue”. Coloro che, pur intendendola, non la parlano, lo fanno considerando l’uso del dialetto greco indice di modesta provenienza sociale. Per contro, coloro che lo parlano, quando ritengono di aver migliorato la loro condizione, passano al dialetto italiano o, addirittura, all’italiano” (Aprile 1968, 162).
Il numero dei parlanti non è precisabile con sicurezza. Scriveva Rohlfs (1977: XX n 10):
"In base ad una mia recente inchiesta (aprile 1973) si possono dare le seguenti proporzioni. Parlano ancora correntemente il greco nella generazione degli anziani (oltre i 50 anni) a Sternatia quasi tutti, a Corigliano e a Martignano circa la metà, a Castrignano e a Calimera il 40%, a Martano un po’ meno, a Zollino 15%. Per la generazione dei giovani (sotto i 30 anni) si può dire che sono più o meno 20% quelli che parlano il greco a Corigliano e a Martignano (circa la metà a Sternatia). A Calimera, Castrignano e Martano sono molti che comprendono il greco, ma non lo parlano più."
L’Università su cui insiste il territorio della Grecìa fotografa la condizione pre-crisi già alla metà degli anni Settanta (Il Gruppo di Lecce 1979). Da allora molte sono le inchieste e le sintesi di taglio sociolinguistico: si tratta, dopo la questione dell’origine storica di queste comunità, dell’aspetto più studiato. Ne ricordiamo le principali: Profili 1996, Romano 2002; Romano/Marra 2002; Sivas 2007; Sobrero 1976, 1982, 2010a; Sobrero/Miglietta 2005, 2007 (sull’area nel suo insieme); Profili (un inedito del 1981 su Corigliano, attraverso Romano 2002), Romano/Manco/Sarancino (su Martano), Sobrero/Miglietta 2010 e Romano 2011 (su Sternatia).
Un’inchiesta del 1996 (La Grecìa salentina. Minoranze linguistiche europee) quantifica, nel centro di Calimera, nel 70% la popolazione anziana che parla il grico, percentuale che scende al 42% considerando la popolazione tra i 40 e i 55 anni. Oggi questi dati vanno drammaticamente rivisti al ribasso.
Non sono mancati, negli ultimi decenni, tentativi di rivitalizzazione che sono passati anche attraverso la scuola (una sintesi recente, in inglese, è in Douri/De Santis 2015). Ma l’ormai grande distanza linguistica dal greco moderno rende ulteriormente problematico ogni tentativo di rinascita del grico attraverso il contatto con i greci al di là del mare.
2. Da dove vengono e come si chiamano i greci della Terra d’Otranto
Il problema di “chi sono e da dove vengono i greci del Salento”, come vedremo nel paragrafo successivo, ha in realtà un riflesso diretto sulle modalità sociolinguistiche di estinzione della lingua: se valutiamo le cose in sincronia, il grico è “un ramo linguistico occidentale nel panorama dei dialetti neogreci” (Giannachi 2016b, 18). Ma è evidente che non è affatto lo stesso considerare questa minoranza come il residuo degli antichi abitanti della Magna Grecia o come il restringimento di un’area non grandissima anche in origine frutto di un popolamento successivo.
Per giunta, pensare semplicemente ai greci del Salento come il frutto di un unico filone, un’unica emigrazione, un solo ceppo è ormai, sempre più plasticamente, una forzatura schematica che non rappresenta una realtà molto più complessa di così. Senza neanche considerare la possibilità, a nostro avviso più che probabile, che ci fossero greci nella futura Terra d’Otranto anche prima della dominazione bizantina (cfr. più avanti in questo paragrafo), già nella sola età medievale la situazione è assai complessa:
“troppo poco ancora sappiamo degli spostamenti di popolazioni bizantine verso la Puglia meridionale, 20 prima e dopo la caduta di Bari in mano normanna nel 1071. A questo si deve aggiungere una totale mancanza di informazioni, o forse è meglio dire di approfondimento, sulla frequenza dei contatti culturali e commerciali che i greci della Puglia hanno avuto con la madrepatria. In definitiva, pur con la consapevolezza di avere a che fare con una lingua dai tratti tipicamente greco-medievali, la variegata facies linguistica del griko potrà essere studiata a pieno solo dopo un’attenta indagine storico-sociale che ripercorra le svariate fasi migratorie ed i contatti del Salento con l’oriente greco” (Giannachi 2015, 157).
Se dovessimo rispondere alla domanda Quando sono giunti nel Salento i Grichi? (è il titolo dell’ articolo di Parlangeli 1951), la risposta che riteniamo più plausibile sarebbe “dipende. Non tutti da un’unica direzione. Non tutti in un unico tempo”.
Comunque stiano le cose, nel giro di qualche secolo si è assistito alla perdita progressiva della completezza della lingua sul piano
- diamesico, perché gli antenati dei grichi scrivevano in caratteri greci fino al Seicento: poi perdono i caratteri greci senza acquisire quelli latini,
- diastratico, perché i greci perdono posizioni sociali fino a scivolare verso gli strati più bassi della popolazione, sia per condizione economica, sia per grado di istruzione,
- diafasico, perché lo spazio del grico perde pezzi fondamentali, a cominciare dalla messa in greco e dalla comunicazione di àmbito religioso.
Il prestigio si inverte: se ancora all’inizio dell’età moderna la vivacità del sistema culturale dell’ellenismo salentino era superiore a quella dei latini, ora le parti sono al contrario. D’altra parte, Benvenuto Terracini, nel riferirsi in generale alla morte di una lingua, osservava che
"una lingua vicina a spegnersi […] si restringe […] all’intimità familiare e concentra molto sovente la propria forza affettiva, se pure non si degrada alla funzione di gergo. Pudore della intimità e ad un tempo vergogna del decoro perduto, questo complesso d’inferiorità risponde naturalmente ad una progressiva decadenza di valore culturale" (Terracini 1957, 17 n 11).
Il quadro, tracciato dal grande studioso per la sua varietà familiare, il giudeo-piemontese, può essere riproposto pari pari per il grico e per le altre lingue tagliate: privati della possibilità di scrivere e poi quella di praticare il culto in greco, i grecofoni si avvicinano progressivamente alla sola intimità familiare, lo stadio che precede lo spegnimento.
Lasciato, per così dire, a sé stesso, senza il contatto con una varietà alta e con una lingua tetto per via del distacco dalla Grecia (che non esisteva più come entità politica, dato che nel 1453 l’impero bizantino era stato conquistato e assorbito dai turchi), nel greco del Salento hanno la prevalenza, senza più alcun contrappeso, le forze centrifughe: il processo di allontanamento dal neogreco corre così senza freni. Il ragionamento andrebbe provato e articolato meglio (e, data la scarsità di tracce scritte per i secoli dal XVII al XIX, questo non sarà facile), ma in futuro gli studiosi dovranno lavorare sull’ipotesi che gli sviluppi fonetici peculiari del grico rispetto alla lingua madre abbiano avuto un tumultuoso sviluppo centrifugo proprio in questo periodo. Non lo sapremo mai con certezza, ma a nostro avviso i fatti giocano in favore di un quadro in cui la differenza tra il grico parlato nel Cinque-Seicento e quello parlato nell’Ottocento potrebbe essere stata enorme.
A un ragionamento del genere, che certo pecca di impressionismo, crediamo di poter portare ora un argomento importante che ci viene dall’abbozzo di una ricerca presentata preliminarmente in Giannachi 2018, 188 n 5. Lo studioso ha sottoposto a un determinato numero di parlanti greco-salentini un testo greco demotico del XVII secolo, il Γεωπονικόν di Agapio Lando, per verificarne il grado di comprensibilità attuale: i risultati, veramente sorprendenti, oscillano tra il 60 e il 70% già alla prima lettura. Sottoponendo agli stessi parlanti una serie di testi in prosa neogreci contemporanei la comprensione del testo scende al 30-40%, segno che l’allontanamento reciproco tra grico e neogreco è stato, in questi secoli, molto accentuato; e ovviamente prosegue ancora.
3. Gli studi linguistici sul greco del Salento
Quanto alla discussione sull’origine del greco del Salento (e della Calabria: le due questioni vanno di pari passo, ma per tanti motivi non sono sovrapponibili), essa è stata una delle più accanite e, a tratti, spigolose di tutto il Novecento. Ne ricordiamo solo i capisaldi, rinviando per il resto ad una nostra sintesi di qualche tempo fa (Aprile 2008b); un’ampia bibliografia sulla questione è radunata in Giannachi 2018, 187-188, a cui rimandiamo per chi volesse approfondire ogni aspetto della questione.
Nel 1870 un allievo di Ascoli, Giuseppe Morosi, pubblica gli Studi sui dialetti greci della Terra d’Otranto, un caposaldo che segna gli studi per il mezzo secolo successivo, ipotizzando, ben prima del furore ideologico che caratterizza gli anni tra le due guerre mondiali, l’origine bizantina della Grecìa salentina sulla base della somiglianza tra la parlata greca di Terra d’Otranto e il neogreco.
Gerhard Rohlfs ribalta la prospettiva con un libro del 1933 che rappresenta un classico senza tempo della dialettologia ed è intitolato, significativamente, Scavi linguistici nella Magna Grecia (ripubblicato poi, interamente rifatto, nel 1974a): lo fa in piena epoca fascista, suscitando la dura reazione dei grandi glottologi della tradizione italiana come Carlo Battisti e Giovanni Alessio. Anche se nessuno dei protagonisti mette la questione in questi termini, il nocciolo del dibattito è se la romanità abbia avuto o no la forza di spiantare dall’Italia antica tutte le tradizioni linguistiche precedenti, compresa quella greca, che nella visione dei primi studiosi bizantinisti si è solo reimpiantata successivamente.
Il terzo classico della dialettologia applicata alla questione dei dialetti greci è dovuto a Oronzo Parlangeli: nel 1953, dopo i furori della guerra, esce Sui dialetti romanzi e romaici del Salento, dettagliatissima e assai pregevole riproposizione della teoria della non continuità.
I lavori di cui abbiamo parlato sommariamente presentano punti di vista squadrati, senza sfumature. Ma alla fine del Novecento, grazie alla sintesi di Franco Fanciullo e a un suo saggio del 1996, Fra Oriente e Occidente, si è giunti a una proposta di soluzione che tiene conto del fatto che l’origine magnogreca “secca” del greco salentino va scartata senz’altro sulla base di evidenze storiche, ma che va però anche considerato che, con la sconfitta dei messapi e dopo la conquista romana, nel Salento, a ondate diverse e probabilmente anche in ordine sparso, giunsero anche moltissimi greci. “Attestazioni di vario tipo, come fonti letterarie, epigrafi e documentazione archeologica, ci consentono di constatare e verificare, per tutto il periodo romano, un naturale e quotidiano collegamento con la sponda opposta dell’Adriatico ed in generale con il Mediterraneo Orientale” (De Mitri 1999, 96, che propone un punto di vista archeologico non eliminabile dal dibattito).
Si riconosce così l’origine tardoantica di dialetti che presentano elementi arcaici, ma contemporaneamente si sposta l’origine del greco del Salento all’età imperiale: i greci sono arrivati quindi dopo i romani, non prima, come hanno sostenuto i rohlfsiani, ma prima dei bizantini, a differenza di quello che hanno sostenuto i bizantinisti.
Come si vede, nonostante la furibonda disputa protrattasi per buona parte del Novecento, ormai le posizioni in campo tra antichisti e bizantinisti divergono molto meno, al massimo di qualche secolo, che ormai potrebbero essere due o tre: davvero poca cosa, rispetto all’immagine che la questione aveva assunto durante la sua massima virulenza novecentesca. Ferma la facies complessivamente medievale del grico esclusi alcuni tratti più conservativi (la conservazione della lunghezza consonantica e la conservazione del nesso nt con sole cinque eccezioni lessicalizzate; Giannachi 2015 propone un’interpretazione diversa, ma si tratta di fenomeni troppo macroscopici per non essere significativi), ormai l’unica vera domanda è quale fosse la reale entità degli insediamenti greci prebizantini: se le prove archeologiche dimostreranno ancora meglio, in futuro, che si trattava di una presenza di una certa consistenza demografica non esisterebbe nessun motivo ragionevole per cui l’origine prebizantina delle colonie greche del tacco d’Italia non dovrebbe essere riconosciuta con serenità. Il ragionamento, per la parte storica, andrà sostanziato con le prove archeologiche, che in questo caso saranno decisive: la densità delle testimonianze epigrafiche è in grado di dimostrare anche da sola che non c’è stata (se non c’è stata) alcuna interruzione nel popolamento greco della Terra d’Otranto. Diversamente, la questione, anche nel quadro di un sostanziale riavvicinamento delle parti, sarà sempre considerata aperta.
Gli studi appena nominati di Rohlfs, Parlangeli e Fanciullo vanno ormai considerati dei classici (a questi aggiungiamo volentieri, per precocità documentaria, anche quello di Comparetti 1866). Ovviamente essi non esauriscono né le prospettive, né i punti di vista, né gli aspetti linguistici. Proviamo a tracciare un rapidissimo bilancio bibliografico utile a chi volesse approfondire singole questioni, posto che gli studi di lessicografia e grammaticografia sono affrontati in dettaglio nei § 6 e 7, a cui pertanto si rinvia direttamente.
Segnaliamo per esempio la bella lettura dei fenomeni di interferenza tra il grico di Corigliano e i dialetti romanzi circostanti nella monografia di Profili 1983. Un’ottima descrizione sincronica del grico, di taglio generativista, è nella tesi di dottorato di Valeria Baldissera 2012-2013, un lavoro incentrato in particolare sul contatto linguistico del greco del Salento con le lingue balcaniche in riferimento a due balcanismi del grico, la sostituzione dell’infinito e il sistema a doppio complementatore.
Altri lavori più brevi affrontano singoli aspetti del contatto. Segnaliamo intanto il lavoro di Miglietta/Sobrero 2007 sull’esistenza di spie morfologiche della resistenza del grico nei dialetti salentini. Il contatto greco-romanzo nelle strutture nominali è studiato in Guardiano /Stavrou 2014 (il punto di vista è quello generativista). Due bei lavori ancora sui tratti di convergenza tra grico, dialetto romanzo e italiano regionale (i tratti considerati sono costruzioni progressive, perfetto analitico, selezione degli ausiliari, assenza del futuro di tipo greco e sistema del verbo copula) sono in Golovko 2015 e Golovko/Panov 2013.
Riserviamo invece la parte finale del paragrafo per un aspetto poco noto degli studi sul grico, quello costituito dalle inchieste atlantografiche novecentesche. Le prime inchieste, condotte da Rohlfs, lo ricordiamo, per l’Atlante Italo-Svizzero, hanno riguardato un punto leggermente più meridionale, Corigliano d’Otranto, e sono poi confluite nel VDSde .
Stanno man mano confluendo nell’Atlante anche le inchieste dialettali condotte da due illustri studiosi italiani in vista dell’Atlante Linguistico Italiano (ALI). Grazie alla cortesia dei colleghi di Torino abbiamo potuto visionare tre inchieste inedite. Quella preliminare di Corrado Grassi, avvenuta il 15 maggio 1956, ha come informatore un sarto allora di 72 anni, Erminio Franceschello. Le successive sono state condotte tra il 13 e il 21 settembre 1964. L’informatore primario è Luigi Castrignanò, barbiere allora di 43 anni, fonte “assai ben rappresentativa d’un calimerese ‘borghese’ d’oggi, mentre aspetti più arcaici troviamo in elementi anziani, rurali e femminili: come d’uso. La fonte è stata sostituita da un contadino per la parte agricola, per tutto il resto si è mostrata adeguata, e soddisfacente” (così recita il verbale dell’inchiesta). Il contadino a cui Franceschi si riferisce è Luigi Aprile, allora di 71 anni, servito anche di controllo per le risposte dell’informatore primario.
Ovviamente il materiale è interessantissimo. Abbondano già gli italianismi, alcuni altamente prevedibili, come quelli riferiti a concetti dotti come ‘primavera’ (una stagione che non esiste nella percezione effettiva dei lavoratori del passato), mentre sono in linea con il resto della cultura contadina italiana caloceli (ma sarà caloceri) ‘estate’ e χimona ‘inverno’, con uno spazio intermedio riservato al solo ndifriscata ‘autunno’ (si noti il prestito romanzo in grico), ma in realtà più propriamente il periodo post-estivo in cui l’aria si raffredda e arrivano le prime piogge: di fatto, poco più che settembre. Insomma, come in tutto il Mediterraneo, le stagioni effettive sono due.
Ma in generale colpisce, in queste inchieste, la vita simbiotica delle due lingue, usate funzionalmente in relazione alle esigenze comunicative e perciò perfettamente dominate entrambe dai parlanti: nel campo delle parti del corpo umano abbiamo per esempio, senza soluzione di continuità (la grafia è semplificata), ammai ‘occhio, ìpuno ‘tempia’, aftì ‘orecchio’, mitti ‘naso’, lemò ‘bocca’, hilo ‘labbro’, donti ‘dente’, glossa ‘lingua’, sfòndilo ‘collo’, stavrì ‘schiena’, vraχona ‘braccio’, accanto a mustacia ‘baffi’, muso ‘viso’, frontili ‘fronte’, barba ‘barba’, coddharetto ‘nuca’, puzzo ‘polso’, elementi romanzi adattati alla morfologia grica.
Infine, un cenno a un’inchiesta tanto interessante quanto rimasta inspiegabilmente sconosciuta fino a quando non è stata meritoriamente riscoperta da Francesco Giannachi, che ce l’ha segnalata. Si tratta di The Study of an Italian Village di Maraspini 1968, peraltro pubblicata in una sede molto prestigiosa, una collana del Social Sciences Centre di Atene pubblicata dall’editore Mouton. Si tratta di un’inchiesta di taglio sociologico, riservata a Calimera, che però non compare nel titolo dell’opera: e dev’essere questo il motivo per cui non è mai entrata nelle discussioni sul grico. Essa è articolata per argomenti: una descrizione generale dell’area, che Maraspini chiama Grichia, l’articolazione del potere, la casa e il matrimonio, la famiglia, le relazioni quasi-familiari, la terra, la chiesa.
4. Greco e romanzo: due sistemi linguistici in simbiosi
La soluzione sociolinguistica proposta da Fanciullo 1996 e discussa nel paragrafo precedente ha l’enorme pregio di offrire una visione complessa, non schematica, della società dei secoli passati: in essa alla visione squadrata, senza mediazioni, dell’aut aut (per cui le popolazioni della Terra d’Otranto dei secoli passati avrebbero parlato o greco o romanzo) si sostituisce la visione flessibile, e rispondente a una realtà storicamente assai più fondata, dell’et et (le persone, almeno nei paesi greci, parlavano e greco e romanzo, secondo la situazione comunicativa e l’opportunità). Persino i modi di dire vengono in soccorso di una ricostruzione tanto ragionevole: il vecchio gente con due facce, gente con due lingue con cui gli abitanti dei paesi greci venivano apostrofati da quelli del circondario significa, appunto, se le parole sono una conseguenza delle cose, che essi parlavano due lingue, non una. Nella Grecìa dei secoli passati poteva prodursi una situazione per cui, al limite, un notaio poteva scrivere gli atti parte in latino e parte in italiano, e una volta a casa o in piazza poteva parlare in grico o in dialetto romanzo, secondo gli interlocutori: le lingue coinvolte erano, insomma, fino a quattro.
E i segni e le prove di una convivenza simbiotica tra greco e romanzo in cui l’elemento linguistico era anche, e forse soprattutto, funzionale sono davvero incontestabili, oltre che numerosissimi; ne presentiamo qualcuno.
Partiamo dalla toponomastica rurale, che ha ricevuto negli ultimi tempi una certa attenzione. Da Soleto (traiamo i dati dal bel lavoro di Giannachi 2017) abbiamo, l’uno accanto all’altro, il greco àmpelu e ampèli (dalla denominazione della vite) e il romanzo mendulee (dalla denominazione del mandorlo) e pirazzu (dalla denominazione del pero), il greco laccu ‘avvallamento del terreno in cui si deposita l’acqua d’inverno’ (che però rientra in uno strato di prestiti greci molto più antichi ed entrati nel latino regionale – ma possiamo già dire nel protoromanzo – di un’area molto più ampia di quella della Grecìa, tanto da essere documentato anche, per esempio, in Basilicata) e il romanzo puzzieddhu; e la doppia identità entra anche nella denominazione bilingue che designa lo stesso toponimo (sia pure in tempi diversi: greco nel Settecento, solo romanzo oggi), detto stavrò e stavrò to mea e poi la croce. Il bilinguismo è talmente intrinseco che si arriva fino a toponimi misti addirittura nei morfemi, come broficuddhi, da broficu ‘caprifico’ con il suffisso diminutivo greco -uddhi, o Martinaci, da ‘Martino’ con il suffisso diminutivo greco -aci.
La vita comune dei due sistemi linguistici è confermata se operiamo una verifica diacronica sui dati. Da un’inchiesta da noi condotta direttamente sui documenti notarili e sui catasti onciari sette-ottocenteschi di alcuni paesi greci rileviamo questi dati, abbondanti quanto sorprendenti. I toponimi ci mostrano un panorama molto complesso e stratificato di vita in comune delle due lingue compresenti nel territorio. Per brevità ometteremo i toponimi latini, che sono anch’essi moltissimi, per ragionare solo su quelli greci. Risaliamo così a grecismi stretti, documentati solo nell’area storicamente greca, ma anche a una serie di forme di estensione molto più ampia, che sono entrate come prestiti nei dialetti romanzi del Salento (nel primo esempio già dal latino regionale) e hanno vissuto una storia di più larga fortuna: tra questi ultimi il più significativo è Capasa ‘grande vaso di creta per conservarvi olio, olive o altri cibi’, originariamente un grecismo, ma non più percepito come tale e anzi oggi di grande successo nell’italiano regionale del Salento. Di minore successo, ma rispondono alle stesse regole di diffusione, sono Curàtolo, che nasce da una forma greca di abbondante attestazione panmeridionale passata anche al salent. curátulu ‘persona addetta alla cura dell’olio nei frantoi e nei magazzini’ e “rientrata” nell’area grica, Curmuni/Cormuni, da curmune ‘tronco dell’ulivo senza radici e spogliato di tutti i rami per essere trapiantato in un altro luogo’ o ‘germoglio dell’ulivo’ (diffuso in tutta la Terra d’Otranto e in Calabria), dal gr. κορμός ‘tronco’, Sciscine, toponimo greco che documenta una rara forma, salent. scisci ‘nastri; trine; fronzoli, ornamenti decorativi delle vesti’ a sua volta dal greco σκισκί ((LGII, 463)), parola del linguaggio infantile, Scorpo, che nasce dal salent. scòrpu ‘pero selvatico’, ‘arbusto spinoso, in genere’, ecc., a sua volta, con un processo di estensione semantica molto interessante quanto universale, dal greco σκορπίος ‘specie di ginestra spinosa’, Spano, grecismo con cui si passa, per metafora, dal mondo umano (‘sbarbato’) al mondo inanimato (‘luogo privo di vegetazione’).
Per il resto, tra i grecismi caratterizzanti (molti dei quali riferiti alle caratteristiche geomorfiche del territorio), abbiamo Alogna e Alonaci, rispettivamente ‘aia’ e ‘piccola aia’, entrambi da una base greca ἀλώνι (nel primo caso dal plurale, nel secondo dal diminutivo), Asteria ‘stelle’, Cinurgi, plurale dal grico cinúrgio ‘giardino’, Ciponorchi, da una base cipo che significa ancora ‘giardino’ (il secondo elemento di questo toponimo ancora vitale dovrebbe essere proprio orco: Cazzato/Costantini 1990, 18), Croperò, dal grico cròpo ‘sterco’ con il suffisso aggettivale greco -ερός, Foterà, dal grico foderò ‘forte, duro a coltivare, roccioso’, a sua volta dal greco σφοδρός ‘forte’ (LGII, 495), Furnì, dal greco *φουρνίον ‘capanna di pietre’, Gonìa, dal nome grico che designa i sassi fissi nel terreno o i terreni rocciosi (o ancora dalla denominazione dell’angolo), Limbi, dal greco *λιμβός ‘luogo fangoso e viscido’ (sembrerebbe finora sconosciuto in Salento, § 1.1.), Lisari ‘pietra’, Macrì ‘lungo’ o ‘alto’, marmaro ‘marmo’, Mati, dal nome della gonnella a Calimera, Monìa ‘casolare di campagna; riparo rustico per animali’, dal greco *μονία, Patea (cfr. più avanti), Placusa, toponimo greco che nasce dal grico placa ‘lastra di pietra’ con il suffisso -οῦσα, anch’esso greco, Solonarea (cfr. più avanti), Varì, dall’aggettivo greco βαρύς ‘pesante’, Volì, da una base greca *βολίον (Fanciullo 1979: 53), Zuccalà, dal nome di mestiere, che vale ‘pentolaio’, dell’antico proprietario del fondo.
Documenta nomi di animali Campia, sulla base del prestito greco nei dialetti romanzi del Salento càmpia ‘larva di insetto che rode le foglie tenere degli alberi; bruco’.
Anche in questo caso, i fitotoponimi e le denominazioni connesse con il mondo vegetale sono ben rappresentati e molto interessanti. Abbiamo Agriddi, dal nome dell’ulivo selvatico, Ampelaci (forma diminutivale integralmente grica), formato come Ampegliacatu del prossimo paragrafo sulla base di ampeli ‘vite’, Mavrampeli, toponimo grico composto, oltre che ancora da ampeli, anche da mavro ‘nero’, il probabile grecismo Caffaru, toponimo greco (o, in alternativa, arabo) derivato dal nome di una pianta coltivata, (tumu) cáfaru ‘timo nano’, a sua volta, se è giusta l’ipotesi avanzata dal Rohlfs, dal greco *κάφερος (LGII, 229; EWUG, § 961), Caridea (cfr. più avanti), Climma, dal grico clima ‘sarmento’, Crampo, dal grico crambo ‘torsolo di cavolo’, Donaci, dal nome greco (gr. δονάκιον < δόναξ) della canna palustre finora sconosciuto nelle ricerche sul grico in Salento e noto solo per la Calabria greca (§ 1.1.), Fellitti, dal nome greco della felce, Galazze, connesso con il nome greco γαλατσύδα ‘cicerbita, pianta velenosa’, Lapistra, dal nome grico del ramolaccio selvatico, Petrusella ‘trifoglio incarnato’ e Saprè ‘midollo dell’albero infracidito’, anch’essi finora sconosciuti in Salento (cfr. § 1.1.), Sellitte, da uno dei nomi greci dell’edera e di altri rampicanti.
Formano una serie in nomi in -ea, formati con un suffisso molto ben conservato nel Salento grico (Rohlfs 1977 § 257): Caridea ‘noce, albero delle noci’ (l’equivalenza è resa esplicita dal contesto: Caridea, seù la noce), Catumerea, nome di un quartiere di Martano tuttora vitalissimo formato da κάτω μερέα ‘la parte di sotto’, Patea (cfr. più avanti), dal salent. patu ‘strato (di terra, pesci, fichi, ecc.)’, a sua volta dal greco dal greco πάτος ‘traccia’, ‘fondo’, Solonarea, probabilmente connesso con il grico sulinèa ‘ferro di cavallo’, e il misterioso Vroanea/Broanea.
Anche le forme miste greco-romanze sono sintomatiche di una forte integrazione tra i due sistemi linguistici. Sono forme con base greca e suffisso romanzo Ampegliacatu, dal grico ampeli ‘vite’ come il precedente Ampelaci, Aspricella, sulla base del grico aspro ‘bianco’, Carparone, sulla base del salent. cárparu ‘pietra calcarea e sabbiosa a grani grossolani molto resistente’ (a sua volta un grecismo), Ceramatella, dal grico cerámi ‘tegolo’ < greco κεράμιον, Dasuglia, sulla base del grico daso ‘bosco’, Trombito, che è il salent. trumbitu ‘erba selvatica che cresce spontaneamente soprattutto ai bordi di grosse lastre di pietra’, da una base trumba < greco dialettale θύμβρα, greco tardo θρύμβη,
Al contrario, Agliuni, toponimo costruito sulla base della denominazione romanza dell’aglio selvatico, è da noi giudicato come forma mista: la sua terminazione ha tutto l’aspetto di un neutro singolare greco.
Bastano questi dati per segnare una vitalità sia del grico, sia dell’interazione tra grico e romanzo, che ancora nel Sette-Ottocento doveva essere enorme.
5. Il grico, oggi
L’impressione di staticità che un dialetto come il grico può dare a un osservatore, per vari motivi in parte già esposti (cfr. il § 2.), dev’essere ridimensionata. La mancanza di una documentazione scritta anteriore alla seconda metà dell’Ottocento certo non favorisce gli studi di diacronia interna alla lingua, ma abbiamo numerosi elementi che ci spingono a ritenere che l’aspetto del grico ottocentesco fosse notevolmente diverso da quello attuale, se non altro per via dell’erosione degli elementi greci in favore di quelli romanzi su cui torneremo tra pochissimo: “alcuni elementi morfologici non erano del tutto scomparsi o non si erano evoluti. Si pensi, ad esempio, all’erosione della desinenza del genitivo singolare nei sostantivi maschili o alla scomparsa del sigma o del ny finale nelle desinenze verbali” (Giannachi 2016, 67). In particolare, quanto alla crisi del genitivo, sembra che
“abbia dato i suoi effetti soprattutto per quei sostantivi che al genitivo mutavano accento o numero di sillabe. Si vedano gli esempi fatti prima: nom. to pòda – gen. arcaico tu podò; to sòma – gen. arcaico tu somàtu ed ancora to ciùri (‘il padre’) – gen. arcaico tu ciurù – gen. attuale tu ciùri. Per alcuni sostantivi ancora rimane la forma dell’antico genitivo. Si veda, ad esempio, tu scimonìu, gen. di to scimòna (‘l’inverno’, es.: mìan imèra scimonìu, trad. ‘una giornata d’inverno’, benché si dica anche mìan imèra tze scimòna)” (cite key="24952" p="71 n 7"].
Il patrimonio lessicale – a parte l’assottigliamento costante della percentuale dei parlanti in greco e il loro invecchiamento – è andato incontro a notevoli forme di erosione: per decenni la sostituzione di elementi lessicali greci con i corrispondenti romanzi è stata lenta ma costante e rappresenta, comunque la si veda, un aspetto innovativo, o almeno di distanziamento dalla base lessicale originaria. Questa base presenta strutturalmente, rispetto a quella dei dialetti romanzi, una macroscopica differenza su cui, ci sembra, non si è ancora mai riflettuto: la grande abbondanza di astratti che il dialetto romanzo deve invece mutuare dall’italiano. Qualche esempio, tratto dall’antologia Traudia Aprile 1990, 167-175: agàpimu ‘amore mio’, gapìsi ‘amare’, cerò ‘tempo’, xari ‘grazia’, mmea ‘potente’, alìssia ‘verità’, fsema ‘bugia’, fsixì ‘anima’, pono ‘dolore’, canni na ponume ‘ci fa dolere’, lipimeni ‘sconsolata’. Si tratta di un riflesso, senz’altro sotto forma di sopravvivenza di relitti, di una fisionomia complessiva che doveva essere, qualche secolo fa, molto ben strutturata su più piani, non solo quello della lingua di pura sopravvivenza. Gli astratti rivelano, in controluce, anche un aspetto più interessante sul piano socioculturale: chi parlava il greco vedeva il mondo in modo più complesso e articolato di chi non lo parlava e non aveva un accesso alternativo all’italiano o al latino scolastico.
D’altra parte, fino agli anni Cinquanta e anche oltre, c’è un uso sociolinguistico del greco oggi completamente sconosciuto: quello della comunicazione politica. Gli infuocati e seguitissimi comizi elettorali dell’epoca venivano tenuti in greco. In un caso, ci resta la trascrizione, ormai quasi introvabile, dei discorsi e dei comizi elettorali in greco di un personaggio politico di Calimera, Gino Aprile, che parlava nella lingua dei padri della scelta tra Monarchia e Repubblica al referendum del 1946 (il discorso contribuì a fare del paese uno dei più “repubblicani” della provincia di Lecce), della presentazione dei valori del socialismo, della lotta contro la riforma elettorale del 1953 (passata alla storia italiana come la “legge truffa”). In greco, insomma, ancora negli anni Cinquanta (i discorsi sono del 1946-1956), si poteva parlare, a certe condizioni, di parecchie cose.
Quanto all’erosione del lessico greco, il processo è della massima importanza. L’erosione lessicale, che si realizza attraverso la perdita del vocabolario originario, in parte sostituito da elementi dialettali o italiani e in parte no, è uno stadio ulteriore del processo centrifugo del greco salentino rispetto al troncone principale dell’ellenismo. Gli unici dati certi sono quelli emersi da un’inchiesta inedita del 2006-2007 a Calimera. In questa inchiesta, condotta sul campo da Francesca Calò con supervisione dello scrivente, è stata misurata la vitalità di circa 2000 parole (quindi un campione molto ampio e significativo) del lessico di base greco a Calimera, estratte dal Vocabolario dei Dialetti Salentini di Rohlfs (VDS; limitatamente al solo lessico documentato dallo studioso per Calimera) e dal dizionario sintetico pubblicato nel manuale Katalisti o Kosmo di Salvatore Tommasi 1996.
Il corpus è stato poi somministrato, partendo dalla parola in italiano (“nascosta” all’interno di una frase), a tre parlanti anziani nativi molto competenti, Lucia Aprile, Paola Palumbo e Angelo Tinelli. Le risposte sono collocate all’interno di una serie di possibilità, “ricorda”, “non ricorda”, “ricorda dopo suggerimento”, “utilizzato dal padre o dalla madre ma non più dall’interessato/a”, “usa un’altra parola”.
L’ultima possibilità è particolarmente significativa perché contempla casi in cui all’abbandono di una parola etimologicamente greca corrisponde l’adozione di una parola di base latina adattata alla fonomorfologia del grico: per esempio, a ddhasso ‘mi cambio’, non più usata o ricordata dopo suggerimento, corrisponde il prestito cangèo, a trifuddhi ‘salvadanaio di creta’ corrisponde cippo, a ntigòri ‘demonio’ corrisponde demòni, a felò ‘giovare’ corrisponde giovèo, a kuruddhèo ‘girare’ corrisponde girèo, a klettàri ‘ladro’ corrisponde ladro, a mburdèo ‘imbrattare’ corrisponde mukèo, a kuturìmma ‘orina’ corrisponde piscina, a nòisi ‘intelligenza’ corrisponde sapienza, a spammèno ‘lacero’ corrisponde strazzào. Infine, in alcuni casi la sostituzione avviene direttamente con la forma italiana, senza neanche passare dal dialetto romanzo: a lafrò corrisponde l’italiano leggero, a sìnneko nuvola, a panìri regalo, a lipi tristezza.
Ci sono poi le parole semplicemente non più capite, corrispondenti ad un affievolimento del rapporto con la campagna o semplicemente con il cambiamento della cultura materiale: si va dalla denominazione delle erbe (accettù ‘edera’, àcriddho ‘olivastro’, afsittèa ‘assenzio’, arici ‘ravanello’, aserà ‘resta della spiga’, avrùddho ‘giunco’, brunìtti ‘ghianda dell’elce nana’, ecc.) al tramonto di un certo modo di vivere (acàtisto ‘pane non fermentato’, afsenterizzo ‘sbudellare’, àimma ‘acqua santa’, afnìma ‘tomba’, afsepòlito ‘scalzo’, ecc.), fino al classico settore della vita in casa (addèdda ‘mignatta’, alevricò ‘setaccio da farina’, ecc.) e dei campi (alonìzzo ‘trebbiare’, carratea ‘fune sottile con cui si lega l’asina’, diflòmata ‘paraocchi dei cavalli’).
Non meno significative sono le parole ricordate solo dopo suggerimento, anche in questo caso appartenenti alla vita quotidiana, dal mondo vegetale (chortanèmi e koddhìtza ‘parietaria’) a quello umano (ardàri ‘crosta lattea’) fino agli oggetti e alla cultura materiale (ammatzìti ‘sanguinaccio’).
Non resta che evidenziare ancora un paio di cose. La prima, è che tra le funzioni che il grico ha assunto decenni fa quella criptica ha sempre colpito in modo particolare i non greci, alimentando, peraltro comprensibilmente, la diffidenza del circondario nei confronti dei grecofoni: se due commercianti parlavano tra loro in greco fuori paese in presenza di estranei ciò non contribuiva certo alla loro popolarità, destando il sospetto che stessero architettando imbrogli ai danni dei latini, tagliati fuori dalla loro comunicazione. Il fenomeno è notissimo e poligenetico (è osservato per esempio per le parlate giudeo-italiane); il modo di dire gente cu doi lingue nasce probabilmente proprio per il clima di sospetto che una lingua usata per scopi criptici destava di per sé.
La seconda: negli ultimi anni il grico, sempre meno parlato e sempre più confinato nella popolazione anziana, ha assunto una funzione principalmente performativa: “è ora diventato una risorsa sociale e culturale: un idioma performativo post-linguistico” (Pellegrino 2017, 16).
6. La produzione artistica e letteraria nell’Otto-Novecento
Uno dei meriti del dibattito sull’origine dei greci è la documentazione intensiva della letteratura orale, in prosa e in versi, prodotta in abbondanza dalle comunità del Salento (e naturalmente della Calabria). Già la raccolta di (Morosi [1870] 1969) è impostata in questo modo: lo studio linguistico segue la presentazione dei testi.
Anzi, va detto che lo studio dei generi letterari è una delle prospettive di ricerca più interessanti e non ancora battute (Giannachi 2016), visto che l’attenzione degli studiosi si è concentrata prevalentemente sulla questione dell’origine.
La produzione culturale e letteraria si incentra, nell’Ottocento, intorno alla figura di Vito Domenico Palumbo (1854-1918), brillante intellettuale di Calimera con una proiezione non solo locale: fu, per esempio, un corrispondente di Carducci e fu il primo esponente, seguito nel Novecento dal solo Rocco Aprile, ad avere un invito ufficiale dal circolo Parnassós di Atene; ebbe anche la Croce d’argento dei Cavalieri del Reale Ordine del Salvatore dal re di Grecia Giorgio I il 4 settembre 1908 (sulla sua vita Parlangeli 1953; Stomeo 1956; Tommasi 2018). Palumbo è stato autore in proprio, ma soprattutto prezioso raccoglitore di canti e testimonianze della letteratura popolare.
I suoi quaderni manoscritti sono stati in parte pubblicati nel Novecento grazie all’attività del circolo Ghetonìa di Calimera (cfr. almeno Sicuro 1999; Tommasi). Palumbo ha così salvato dal naufragio una serie di testimonianze tra cui spicca la propagginazione esopiana del racconto 96 della silloge di Tommasi 1998, O cunto mô Sopo, oggi non più ricordato, che come dimostra Giannachi 2018 è una versione orale del Romanzo di Esopo, anonimo testo letterario greco del II secolo.
Alla pazienza e alla capacità documentaria di Vito Domenico Palumbo dobbiamo anche una preziosissima testimonianza letteraria cristallizzata proveniente dal rito greco, una versione del Πάτερ ἡμῶν (Filieri 2001) contenente un certo numero di parole non più capite perché erose e, di conseguenza, piena di ristrutturazioni paretimologiche Giannachi 2012. A questa testimonianza del ricordo inconsapevole del rito greco va aggiunta quella studiata ancora da Giannachi (2012, 68-71) e risalente alla Soleto degli anni Settanta del Novecento; aggiungiamo, da parte nostra, che anche a Cannole, appena fuori dall’area grica di oggi, ci sono state riferite sopravvivenze di preghiere in greco, come l’Ave Maria, ormai recitate meccanicamente senza essere più capite (si tratta della cristallizzazione di una situazione di bilinguismo che data alla seconda metà dell’Ottocento; si deve la notizia a una comunicazione privata, assai autorevole, di Franco Fanciullo, 20 giugno 2019).
Nel Novecento spicca su tutte una bella e meritoria raccolta di canti popolari, pubblicata postuma, di Giannino Aprile, il grande sindaco ellenista della cittadina tra il 1956 e il 1960: Calimera e i suoi traùdia (poi ripubblicato con il solo titolo Traùdia nel 1990 a cura di Rocco Aprile per Ghetonìa). Quest’antologia, molto ben giudicata da Pier Paolo Pasolini, che tenne proprio a Calimera l’ultimo incontro pubblico della sua vita, è largamente rappresentativa di temi e autori, oltre che della ricca e delicata produzione anonima di canti di vario argomento (si va da quelli amorosi ai moroloja, le lamentazioni funebri). La parte del leone è, naturalmente, l’ampia antologia della produzione di Vito Domenico Palumbo; seguono gli altri ellenisti che hanno scritto poesie e canti nella lingua dei padri fino agli anni Sessanta (Vito, Antonio e Giuseppe Lefons, Giuseppe e Giannino Aprile; Brizio Leonardo Colaci, ecc.).
La produzione di racconti popolari è notevole. Da segnalare, a parte le raccolte di Palumbo nominate sopra, è la bella silloge di Racconti greci inediti di Sternatia di Paolo Stomeo: in essi tornano motivi della narrativa popolare meridionale (tra questi la storia di Petrosinella che si legge già nel seicentesco Pentamerone di Giambattista Basile).
Nella narrativa contemporanea, il caso editoriale più significativo è la trilogia di romanzi di Rocco Aprile (Il sole e il sale, Il funerale e i fiori di campo, Arsinoi). I romanzi sono in italiano, ma descrivono, senza alcuna nostalgia di maniera, la fase di passaggio all’italianizzazione che Calimera attraversa a cavallo e poi subito dopo la guerra; il terzo è ambientato direttamente in Grecia, ma ricostruisce vicende belliche che richiamano vicende a cavallo tra le due sponde. Vari dialoghi, soprattutto de Il sole e il sale, sono in grico.
Un quarto romanzo, di cui è rimasta solo l’idea di base, avrebbe dovuto riprendere un’idea molto cara all’autore, quella per cui la minoranza greca del Salento prenderebbe il via (o almeno riceverebbe un decisivo impulso) dall’affrancamento di tremila schiavi della ricchissima vedova Danielis destinati dall’imperatore Basilio al ripopolamento del Thema di Longobardia. L’episodio è documentato nella cronaca bizantina di Theophanes Continuatus.
Segnaliamo, in tema di narrativa, anche il bel romanzo Sarakostì di Salvatore Tommasi (2019). Il titolo, che significa ‘quaresima’, indica in realtà il periodo di circa quaranta giorni che i carbonai di Calimera trascorrevano alla macchia per disboscare e costruire le carbonaie, che costituivano la struttura portante dell’economia (assai poco sostenibile, come si vede) del paese.
7. Gli strumenti. I vocabolari
La vexata quaestio dell’origine del greco ha prodotto una felice conseguenza secondaria: alcuni dei migliori dialettologi del mondo occidentale hanno esplorato capillarmente il Salento (e, in parallelo, la Calabria), determinando innanzitutto una straordinaria fioritura lessicografica.
Per quanto ci siano anche tentativi precedenti, come la lista lessicale di Pasquale Lefons (Gabrieli 1931) e il vocabolario di Mauro Cassoni (1999, postumo) (per i dettagli cfr. Aprile in stampa), il merito principale è, senza dubbio, di Gerhard Rohlfs, che nel giro di pochi decenni ha realizzato una serie di gioielli inarrivabili per ricchezza, ampiezza dei dati, qualità della tecnica lessicografica e capacità di fondere dati scritti ricontrollati sul campo e inchieste orali.
Rohlfs, approfittando anche del suo incarico di raccoglitore, cioè di incaricato di condurre le interviste per la raccolta dei dati nell’Atlante Italo-Svizzero (AIS) di Karl Jaberg e Jakob Jud, compila, senza contare i lavori generali tra cui spicca Griechen und Romanen in Unteritalien (Rohlfs 1924), prima il Dizionario delle Tre Calabrie (DTC: tre volumi del 1932-1936, con due ulteriori volumi di Supplemento del 1966-1967), poi il Vocabolario dei dialetti salentini (VDS: 3 volumi, dal 1956 al 1959), infine un Nuovo dizionario dialettale della Calabria (NDC: in un solo volume, 1977), revisione completa dell’opera degli anni Trenta.
Certo, il capolavoro rohlfsiano è il Vocabolario dei dialetti salentini (VDS), il più bel vocabolario dialettale del mondo, non specificamente dedicato al grico (anzi, questa lingua fino ad un certo punto ne era stata esclusa), ma un dizionario regionale di tutti i dialetti salentini i cui limiti geografici sono costituiti dai confini dell’antica Terra d’Otranto.
Ma non è certo un mistero che nel lessico salentino compaia una straordinaria concentrazione di grecismi; e d’altra parte è noto che fin dal Medio Evo le interferenze a tutti i livelli (in primo luogo, naturalmente, quello lessicale) tra greco e romanzo sono normali e frequenti (Fanciullo 1996, 38). Sono infatti registrati con puntualità i grecismi diffusi nei dialetti del Salento, da ápisu ‘voragine’ (attestato nella forma ápisi a Squinzano, molto lontano dalla Grecìa), dal greco ἄβυσσος ‘abisso’, a zímmuru ‘specie di zerro (pesce marino)’ (attestato a Castro e a Leuca, questa volta a sud dell’area greca), dal gr. χίμαρος ‘capretto’). All’inizio, fino alla lettera P, Rohlfs risolve la questione «registr[ando] soltanto quegli elementi che sono di origine latina (romanza) o che possono avere un valore speciale per l’etimologia dei vocaboli dialettali italiani» (p. 10). Ma a partire dalla P e poi nel volume di Supplemento, i grecismi sono registrati direttamente nel corpo del vocabolario e sono riconoscibili perché introdotti dal simbolo ●: «procedendo nella redazione del Vocabolario, mi resi conto che la parentela tra dialetti italiani e dialetti greci, non solo negli elementi lessicali, ma anche nel modo di concepire (locuzioni, immagini), è molto più intima e stretta di quanto io prima non supponessi» (pp. 853-854).
Per i nomi viene aggiunto al maschile e al femminile dei lemmi romanzi il genere neutro, come nella voce seguente, pròato ‘pecora’:
-
pròato (L 15, z) n. [neutro] pecora, bestia ovile; usato generalmente nel plurale ta pròata (L cl, ma, z) n. pl. le pecore; ta pròata cošcíźune (L z) le pecore pascolano; agatò pròata (L cl) cento pecore; ta maḍḍía os pròato (L ma) la lana delle pecore [gr. πρόβατον]
Abbiamo qui il solito sistema di incrocio tra fonti scritte (L 15, corrispondente a un vocabolarietto di Pasquale Lefons) e fonti orali: z (Zollino), cl (Calimera), ma (Martano). In coda, l’etimologia.
I verbi, che hanno un trattamento più difficile (e che infatti mandano letteralmente in tilt i non molto attrezzati compilatori di dizionari grichi dei nostri giorni), sono lemmatizzati, secondo la tradizione greco-latina, al presente indicativo, aprendo solo all’interno della trattazione lessicografica ampi spazi per la flessione. Si fa ricorso quindi a un doppio sistema, per cui i verbi romanzi (nnettare, dicire/dícere) vanno all’infinito, quelli grichi (meletò ‘io parlo’, mèno ‘io resto’, meraźo ‘io divido’) al presente indicativo.
Al VDS e all’NDC Rohlfs affianca due piccoli, ulteriori capolavori monograficamente incentrati sul lessico greco, entrambi scritti in tedesco ed entrambi, secondo la grande lezione di Walther von Wartburg e del FEW, a direzionalità inversa, dall’etimo (che costituisce l’entrata) agli esiti: l’Etymologisches Wörterbuch der unteritalienischen Gräzität (EWUG, del 1930), e il Lexicon Graecanicum Italiae inferioris (LGII, del 1964). Lo studioso raccoglie così un tesoro di circa 5000 parole tra la Calabria e il Salento.
Il bellissimo EWUG è un lavoro che mette un primo punto fermo sulle ricerche avviate da Rohlfs fino al 1930, ed è il risultato di cinque viaggi di lavoro (1922, 1923, 1924, 1925, 1928) in Calabria e nel Salento. Lo scopo minimo del vocabolario è la raccolta e, fin dove possibile, l’etimologizzazione degli elementi greci dell’Italia meridionale, attraverso le loro sopravvivenze nei dialetti moderni.
Confluiscono nell’EWUG due tipologie di grecismi, anche se la loro distinzione non appare così chiara agli osservatori del tempo: è stata definitivamente teorizzata e spiegata, con grande larghezza di esempi, da Fanciullo (2007) in anni ben più recenti. E soprattutto sembra non essere rilevante per lo stesso Rohlfs; invece è della massima importanza, perché le due tipologie che vengono fuori dalla documentazione sono specchio di due strati linguistici e anche cronologici molto diversi. Da una parte, abbiamo una ricca documentazione dei grecismi diretti, come nel caso del lemma 93, ἀληθινός, che vive sia nel greco di Calabria, sia in quello del Salento:
- ἀληθινός „wahr, echt‟
Otr. alisinó id. MorO 167. Bov. alíθio „verace‟ MorB 45, otr. alísyo, alíssyo „vero‟ MorO 167, < *ἀλήθιος.
Dall’altra abbiamo, per es., il lemma 30, ἀγριόμωρον ‘mora’ (un’etimologia radicalmente contestata di recente: cfr. Loporcaro 2019, che propone un ripensamento completo della proposta rohlfsiana), che si apre con una breve avvertenza sul fatto che la voce è attestata in greco molto tardi e una sola volta, nelle Glosse, e si chiude con commento e bibliografia:
- ἀγριόμωρον „Brombeere‟
Das einmalig in einer Glosse (ἂγριον μώρον . morum silvaticum Corp. gloss. III.300.46) bezeugte Wort bildet wahrscheinlich die Grundlage zu otr. (Ca [Calimera]) krόmbulo, (Mg [Martignano]) karǫmbulo, (S, Co [Soleto, Corigliano]) kararúmbulo, (Me [Melpignano]) rómbulo, salent. (Ga, So [Galatina, Sogliano]) kararómbulu, (V [Vernole]) krúmmula, (L [Lecce]) rómmulu, rúmmula, rúmula, (Fr [Francavilla]) lúmbru, (Ma [Manduria]) rúmulu, (O [Ostuni]) lǫmbra, (Car [Carovigno]) lǫmmira, (Ml [Maglie]) kakarúmmula, karakúmmula, (A [Avetrana]) númaru, tarent. (T [Taranto]) alúmərə [nach De Vincentiis alúmmirə], (G [Gioia del Colle?]) alúmbrə, (M, P [Massafra, Palagiano]) lúmbrə m., bar. (R [Ruvo]) loǫmərə, basil. (M [Matera]) lǫmbrə m., (P [Pisticci]) lúmmərə m. „Brombeere‟, basil. (C [Castelmezzano]) grúmələ f. „corbezzola‟, bar. (B, Mo [Bari, Molfetta]) lúmərə Stud. rom. 6. 28 „Brombeere‟. Die von Salvioni versuchte Erklärung dieser Formen der Griechendörfer noch dem überwiegend männlichen Geschlecht Rechnung. – Salvioni, Stud. rom. 6. 28; Rend. lomb. 44.933; Rohlfs ZrPh 43. 705 und GrR 51 u. 96.
Tale tendenza può anche comprendere, al limite, il fatto che i dialetti greci della Bovesìa e della Grecìa siano del tutto esclusi dalla trattazione, come accade, per es., nel lemma 69, ἄκανθα, che presenta sviluppi dialettali solo lucani e baresi, o nel lemma 99, ἀλσίνη, solo siciliani.
Non tutto è riconducibile a questa dicotomia tra grecismi diretti e indiretti. Confluiscono nell’EWUG anche grecismi di natura diversa, per es. quelli marinareschi che giungono in Italia meridionale attraverso la strada della navigazione, come accade per il lemma 51, ἀζήνα, un prestito da Cipro.
Se l’EWUG è un primo, fondamentale punto fermo nelle ricerche del Rohlfs, l’LGII è il lavoro a bocce ferme della maturità, quando i dati dialettologici a disposizione dello studioso sono enormemente aumentati di numero (in buona parte, grazie alle sue stesse inchieste) e soprattutto la riflessione etimologica si è fatta approfondita e ricca di nuove interconnessioni. Parallelamente, aumentano in modo vistoso i materiali dialettali greci, dall’Arcadia alle isole dell’Egeo: l’autore li usa con larghezza per stabilire «Beziehungen zwischen den italogriechischen Mundarten und den heutigen Dialekten in Griechenland» (p. IX), connessioni tra i dialetti italogreci e quelli della Grecia di oggi.
Gli scopi essenziali del LGII sono così riassunti da Gerhard Rohlfs (LGII, VII):
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die griechischen Elemente, die in den süditalienischen Mundarten fortleben, zu sammeln und etymologisch zu erklären"
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den Wortschatz der griechischen Minoritäten, d. h. der noch heute im südlichsten Kalabrien (Zone von Bova) und im südlichsten Apulien (Terra d’Otranto = Salento) fortlebenden griechischen Mundarten möglichst vollständig zu erlassen und historisch zu deuten.
Sul LGII saremo più brevi: quello che cambia rispetto all’EWUG non è l’impostazione ma la qualità e la quantità delle informazioni e la riflessione metalinguistica. Naturalmente, ciò produce una serie di effetti a catena sulla scrittura delle voci e anche sulle attribuzioni etimologiche: l’aspetto finale del LGII è pertanto parecchio diverso da quello dell’EWUG, fatti salvi i princìpi di costruzione.
Per osservare i cambiamenti microstrutturali, non c’è niente di meglio che fare ricorso a due voci comparate per constatare quanto sono cambiate dalla prima alla seconda redazione, in cui, peraltro, è abbandonata la numerazione progressiva. Vediamo allora i lemmi βούλλωμα ‘tappo’ (esempio 2a) e βυλλῶ (2b) del LGII, che prendono il posto della vecchia e unica voce βούλλωμα (1), il lemma 364 dell’EWUG:
(1) 364. βούλλωμα „Propfen‟
Bov. vúḍḍoma, (C [Condofuri]) vúḍḍuma „tappo‟, otr. (Ma, Co, Z [Martano, Corigliano, Zollino]) víḍḍima „tappo‟; (Ma [Martano]) sirovíḍḍima „cavatappi‟ (+ σύρω „ziehen‟).
(2a) βούλλωμα (ngr.) ‘das Versiegeln’: bov. vúḍḍoma, (c) vúḍḍuma ‘il tappo’; v. βυλλῶ
(2b) βυλλῶ (Hesych) ‘verstopfen’; otr. viḍḍò u. viḍḍínno ‘otturare’; Inf. viḍḍísi. Dazu otr. víḍḍima ‘tappo’; sirovíḍḍima ‘cavatappi’. Vgl. βούλλωμα.
Il raffinamento interpretativo rispetto agli anni Trenta è evidente. La storia delle forme calabresi e salentine, le prime con una vocale tonica velare e le seconde con una palatale, nell’EWUG è fatta discendere da una sola voce, mentre nel LGII è separata in modo più consequenziale sotto due basi diverse, evidentemente connesse ma separate; nella seconda voce si stabilisce per giunta un ordine di formazione verbo / derivati. Ad essere sacrificato è qualche dettaglio, per es. la determinazione precisa delle località (e si omette così di ricordare che víḍḍima ‘tappo’ si dice a Martano, Corigliano e Zollino), in favore dello sguardo d’insieme, come si vede più chiaramente in altre voci, come la stessa ἀγριόμωρον di cui abbiamo visto la redazione nell’EWUG, e che non riproduciamo qui per motivi di spazio.
Cronologicamente, l’EWUG (1930) precede il VDS (1956-61), il LGII (1964) e l’ultima revisione degli Scavi linguistici nella Magna Grecia (1974; prima edizione, 1933), con cui aveva aperto il fronte di battaglia con i bizantinisti allora imperanti. Vanno infine considerati i Neue Beiträge zur Kenntnis der unteritalienischen Gräzität (München, Bayerische Akademie der Wissenschaften, 1962), tradotti in italiano con il titolo Nuovi scavi linguistici nella antica Magna Grecia (Palermo, Luxograph, 1972). Rohlfs chiude mezzo secolo di storia e di inesausto impegno con la Grammatica storica delle parlate italogreche (1977).
Dopo questo lunga trattazione della lessicografia rohlfsiana, un cenno all’opera di altri studiosi. Il Vocabolario greco-salentino di Paolo Stomeo è fondato sul grico di Martano e pubblicato prima a puntate sui fascicoli LIX-LXIV della rivista Studi salentini (1982-1987), poi in un volume postumo (Stomeo 1992). La caratteristica specifica di questo bel lavoro, oltre alla fotografia di uno stato sincronico del grico, visto come era negli anni Ottanta del Novecento senza badare all’erosione a cui era andato incontro, è quella di «mettere in diretto confronto il greco che si parla in Grecia con l’idioma greco-salentino, senza ricorrere all’intermediario del greco antico» Stomeo 1992, VII.
Gli esempi riportati provengono in gran parte da Martano, paese dell’autore. Osserviamo qualche voce. Nella seguente, ἀβγούλλι, il tono, esauriti i dati tecnici (come si dice in greco, genere, significato, dove si usa in Grecia, come si dice nei dialetti salentini), è quasi narrativo, e coinvolge Vito Domenico Palumbo, il poeta per eccellenza della comunità ellenofona del Salento, Paolo Stomeo stesso e Giannino Aprile, il grande sindaco di Calimera (cfr. § 5):
ἀβγούλλι, n. uovo, piccolo uovo, dm. [diminutivo] di ἀυγό (v.). Si usa nel Peloponneso || agghùḍḍi, id. Il dm. è usato anche in senso affettivo. Il poeta greco-calimerese Vito D. Palumbo, morto in estrema povertà, negli ultimi anni di sua vita si metteva qualche sera sulla soglia della sua casa (vedi accanto al portone d’ingresso l’iscrizione da me dettata e fatta incidere dal sindaco dott. Giannino Aprile) agli amici che passavano rivolgeva queste parole: «Dóketé-mmu canè ssordo na voràso diu agghùḍḍia gh’i mmána-mmu ca mu stei adínati sto cratti = datemi qualche soldo per comprare due uova per mia madre che mi sta ammalata nel letto».
Grande attenzione è posta alle corrispondenze nella morfologia, soprattutto verbale. Quello di Stomeo, nonostante qualche difetto metodologico, è un lavoro molto interessante e condotto con metodo.
Di ben altra portata è il lavoro di Anastasios Karanastasis, autore del Lessico Storico dei Dialetti Greci dell’Italia Meridionale (1984-1992); su questo lavoro cfr. Aprile/Aprile 2017), che adotta la base documentaria di partenza proposta da Rohlfs e crea un’opera equilibrata e armonica, scritta però in greco moderno, fatto che ne ha molto limitato la diffusione. Opera concepita negli anni Sessanta del Novecento su incarico dell’Accademia della lingua greca di Atene, essa è una raccolta di grande completezza di una lingua che correva a passo veloce verso l’estinzione, rendendo ogni intervento di raccolta particolarmente urgente e ogni indugio fatale: «date le condizioni in cui versa oggi la lingua degli ellenofoni, non sarà possibile, già nel prossimo futuro, risolvere all’istante eventuali dubbi e riempire eventuali vuoti», come ricorda l’autore nel Prologo, soprattutto in comunità come quella di Melpignano o Soleto nel Salento, dove il grico versava già in condizioni catastrofiche negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento.
Il principio lessicografico è semplice e chiaro: si tratta di dotare di un’anima (la fraseologia, su cui lo studioso insiste moltissimo) lo scheletro costituito dalle raccolte lessicali compiute da Rohlfs. Karanastasis va anche oltre, ovviamente, perché riceve dalla voce dei parlanti di mezzo secolo fa nuove informazioni sfuggite al suo predecessore («Più di mille nuove parole e molti significati d’uso e sfumature semantiche si sono aggiunti al materiale pubblicato finora»), ma il punto di partenza sono senza dubbio, né potrebbe essere diversamente, le raccolte del Rohlfs e i suoi circa cinquemila lemmi di partenza, ricontrollati sul campo nei 14 paesi della Grecìa salentina e calabra. Fanciullo (2008, 154), dopo aver illustrato le caratteristiche del Lexikon e averne lodato le innovazioni, sostiene anzi, con ragione, che «è difficile sottrarsi all’impressione che il Karanastasis dipenda abbastanza strettamente dal Rohlfs: dipendenza che ben emerge dalla fiducia o, meglio, da un eccesso di fiducia nella capacità del Rohlfs di discriminare ciò che, nel sud d’Italia, è greco da ciò che non lo è». Prosegue poi Fanciullo: «Non che, con questo, il Karanastasis debba essere considerato pedissequo imitatore dello studioso tedesco; piuttosto, sono gli interessi dell’uno e dell’altro, che, in questo settore specifico, hanno finito col sovrapporsi in modo più o meno completo».
In tempi più recenti esce un lavoro lessicografico di Stephanos Lambrinos (2001) molto ampio e articolato, nonostante un titolo davvero poco appetibile, Il dialetto greco salentino nelle poesie locali. Tesi – Note grammaticali – Vocabolario etimologico. L’autore, che ha insegnato neogreco a Tübingen in Germania, dov’è avvenuto il suo decisivo incontro con Gerhard Rohlfs, è stato uno dei pochi neogrecisti (forse l’unico, finora) a occuparsi dei dialetti greci del Salento. All’ampia e aggiornata bibliografia segue una breve antologia di testi, quasi tutti editi (ce ne sfugge perciò l’interesse), e soprattutto (Lambrinos 2001, 19-102) un’ampia sezione di Note grammaticali (cfr. il prossimo paragrafo). Ma il punto forte dell’opera è il vocabolario, con cui l’autore compie un tentativo molto ambizioso, quello di partire dai testi scritti, soprattutto (ma non necessariamente) letterari: un’impostazione che prefigura un piccolo vocabolario storico, anche se l’autore non usa mai questa definizione del proprio lavoro. Il vocabolario procede secondo l’ordine alfabetico italiano; al neogreco è riservata la traduzione delle parole griche, secondo l’ordine «lemma (in grassetto) traduzione in neogreco (in corsivo), traduzione in italiano (in tondo)» (es.: àblito άπλυτος, non lavato). Segue l’esemplificazione, molto ampia. Vediamo il trattamento di una piccola voce accettù ‘edera’ (ve ne sono di molto più complesse), che comprende anche l’etimologia diretta della parola, [κιττός], racchiusa tra parentesi quadre, e materiale letterario da tre paesi, Zollino, Corigliano e Castrignano:
accettù [κιττός], ακισσός, κισσός, edera: alìttsa | ndimèni m’ accettù “leccio | rivestito di edera” (ToClit 3) [[cfr. ìχe ’na ttìχo komào atts’ accettù “c’era un muro pieno di edera” (Ms:Cor) ○ ghirlanda ’sse fìḍḍa ’sse accettù “ghirlanda di fiori di edera” (Proz 6,6) ○ i agàpi e’ kkùnda o accettù “l’amore è come l’edera” (Ms:Cor – var. ib.: ≈ t’accettù) […] [Scioglimento delle abbreviazioni: ToClit = D. Tondi, Clitunno (quindi, Zollino); Ms:Cor = manoscritto proveniente da Corigliano; Proz = Prozimi (periodico di Castrignano dei Greci)].
Dal punto di vista cronologico, dato che siamo all’inizio degli anni Novanta, quello di Lambrinos è l’ultimo vocabolario in ordine di tempo condotto con criteri scientifici. In un certo senso, quindi, chiude un’epoca che si era aperta con Gerhard Rohlfs, che nel frattempo, da soli cinque anni, era scomparso.
In tempi più recenti ci sono stati altri prodotti lessicografici, nessuno dei quali aggiunge novità sostanziali allo stato descritto da Rohlfs, Karanastasis e Lambrinos (per i dettagli si rinvia ad Aprile in stampa). Molti di essi vanno valutati con benevolenza, ma anche con una certa prudenza: Greco 1998 (Castrignano), Greco/Labrogiorgou 2001 (Sternatia), Corlianò 2010 (soprattutto Calimera). Un tentativo ancora elementare di vocabolario del grico di Martano è consultabile su www.grikamilume.altervista.org/vocabolario.php.
L’unico vocabolario grico del nuovo millennio che si distingue per qualità è quello di Tommasi 2020, rigorosamente fondato sulla varietà di Calimera; esso è da considerare anche in parallelo con Aprile/Bergamo 2020, perché i due vocabolari coprono l’intero spazio linguistico di Calimera, trattando rispettivamente il lessico grico e quello romanzo, anche nelle loro influenze reciproche.
8. Gli strumenti. Le grammatiche, i manuali di apprendimento
Se parliamo di descrizioni grammaticali, abbiamo un panorama meno ricco di quello lessicografico, e tuttavia impreziosito da una delle pochissime grammatiche storiche dedicate a singoli dialetti: è quasi ovvio che per tutto ciò dobbiamo tornare a Gerhard Rohlfs e alla sua Grammatica storica delle parlate italogreche ((2001)). In realtà una prima versione sommaria della grammatica era stata pubblicata in tedesco nel 1950, ma la nuova edizione, tradotta dallo studioso martanese Salvatore Sicuro, si può dire interamente rifatta.
La grammatica storica di Rohlfs è impostata con i criteri che hanno consentito allo studioso di produrre anche quella dell’italiano e dei suoi dialetti (Rohlfs 1966-69), che però ha dimensioni comprensibilmente monumentali: nell’ordine, fonetica (ripartita tra vocalismo, consonantismo e accento), morfologia (articolo, sostantivo, aggettivo, pronome, verbo, verbi irregolari e avverbi, preposizioni e numerali), formazione delle parole (suffissi e prefissi e composizione), sintassi. Infine, un Saggio di sintassi storica (pp. 211-221), che costituisce la parte più militante del libro, e una raccolta di testi dialettali e proverbi.
La sezione Note grammaticali (pp. 19-102) dell’opera di Lambrinos (2001) di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente è di fatto una grammatica storica, di buona qualità, dei dialetti greci salentini.
Non manca qualche grammatica descrittiva di taglio tradizionale. Se risaliamo al periodo prebellico, di modesta portata e ambizione, ma prezioso per il lavoro di raccolta e di documentazione, è il lavoro di un dotto ecclesiastico di Latina trasferitosi cinquantenne nel monastero di Martano, Mauro Cassoni. Don Mauro, molto colpito dalla cultura popolare del luogo, imparò il grico e produsse un catechismo intitolato Prakàliso m’in glossa-su, prega nella tua lingua, che distribuì ai parrocchiani, e in seguito un vocabolario fondato, appunto, sulla parlata grica di Martano che, tranne la lettera Alfa, è rimasto inedito fino a tempi relativamente recenti. Infine, scrisse una grammatica, Hellàs otrantina (Cassoni [1937] 1990). L’opera si svolge in modo classicamente ordinato: fonologia (vocalismo, consonantismo), morfologia (nominale, verbale), sintassi, lessico, fino alla divagazione dal tema costituita da una serie di brevi racconti.
Altra opera di grande interesse per via della sua precocità è Glossa di Domenicano Tondi (1935): l’autore è di Zollino, ma si propone di delocalizzare il grico del suo paese introducendo forme dei paesi vicini e persino qualche grecismo: “il dialetto, così adoperato, perd[e] alquanto di spontaneità; in compenso, esso assume un certo carattere di comune lingua grecosalentina, con un lieve sapore arcaico che gli conferisce un po’ di sostenutezza e lo presenta nelle condizioni meno rovinose nelle quali probabilmente si trovava un cento o centocinquant’anni fa” (Tondi 1935, 2). Solo la prima parte del libro è una grammatica; il resto è costituito da saggi letterari con testo greco e versione italiana.
Degli anni Settanta è Glossa grica di Angiolino Cotardo, una grammatica con traduzione in greco moderno che mira all’apprendimento di entrambe le varietà per un pubblico della scuola dell’obbligo (Cotardo 1975). Per completezza, ricordiamo anche Gemma/Labrogiorgou 2001 su Sternatia, e Greco 2003. È ancora orientato e comparato con il neogreco il lavoro di Filieri (2001b) intitolato Ivò milò to Griko, non a caso pubblicato in Grecia, a Iànina.
In tempi relativamente recenti, nel quadro dei tentativi di Reversing Language Shift, l’attività che si raccoglie intorno al circolo Ghetonìa (cfr. il prossimo paragrafo) ha prodotto un bel metodo di insegnamento del grico basato sui dialoghi, Katalìsti o Kosmo (Tommasi 1996), che raccoglie i materiali di un seminario di studio durato oltre un anno sulla lingua e la cultura del grico calimerese; il cartaceo è integrato dalle registrazioni su cassetta. La seconda parte del libro è una guida linguistica (in sostanza, una grammatica con eserciziario); la parte finale un lessico essenziale con le parole ancora in uso, o almeno capite. Ancora dello stesso studioso è E òrnisa ce o sciddho, un manuale per ragazzi (Tommasi 2015-2016). Un bel metodo che punta all’acquisizione dei livelli A1 e A2 è in Filieri /Pellegrino/Tommasi 2013.
9. I movimenti di recupero (e una visita di Pasolini)
Va detto, con Manuela Pellegrino (2017, 15), che “contro ogni previsione, il griko gode oggi di un fascino senza precedenti. Ciò è in parte legato al riconoscimento legale ottenuto nel 1999 attraverso la legge nazionale 482/1999, che, in conformità con la Carta europea delle lingue regionali e minoritarie, annovera il griko fra le dodici lingue minoritarie sul suolo italiano. L’economia politica di questa lingua è, infatti, cambiata in maniera drastica negli ultimi anni, promuovendo un revival del repertorio culturale locale più in generale, che “nel nome del griko” abbraccia gli ambiti della musica, della gastronomia, dell’arte e del paesaggio. La popolarità del Salento e della Puglia è aumentata, attirando sempre più turisti e mettendo sotto i riflettori ciò che era fino a non troppo tempo addietro, il finibus terrae d’Italia”.
Ma facciamo un passo indietro. Con gli anni Settanta il movimento di recupero si sposta dall’attività di singoli studiosi locali come Vito Domenico Palumbo e Giannino Aprile (per citare i più grandi, rispettivamente, dell’Ottocento e del Novecento) a quello dei circoli. Si può dire che l’attività di singoli appassionati e di gruppi organizzati per la salvaguardia del grico coesiste sin dagli anni Settanta. Sullo sfondo rimane invece l’attività delle istituzioni, altalenante, e quella dell’Università locale, che sconta un’assenza più che trentennale colmata solo di recente con l’istituzione di una cattedra di Civiltà bizantina vinta da un giovane, valente studioso, Francesco Giannachi, molto attivo anche sul fronte dello studio della storia linguistica del greco del Salento.
Non va intanto dimenticato un avvenimento essenziale per l’identità della comunità grica. L’ultimo appuntamento pubblico della vita di un intellettuale del calibro di Pier Paolo Pasolini, il 21 ottobre 1975, si svolse proprio a Calimera: si trattò di un evento improvvisato ma di grande importanza per la vita della comunità. Pasolini fu invitato da Rocco Aprile e tenne un incontro organizzato in poche ore presso una delle vecchie fabbriche di tabacco di cui il Salento era allora pieno. Ascoltò così dalla viva voce di cantori popolari, ma anche di giovani che si avvicinavano alla canzone popolare come forma espressiva, una parte significativa della musica di tradizione greca di Terra d’Otranto ed entrò in possesso, purtroppo tardi, dell’antologia Traùdia di Giannino Aprile (Aprile 1990, § 5). Un dettaglio fondamentale dell’ultimo appuntamento pubblico di Pasolini fu il set di foto dell’evento, improvvisato da Antonio Tommasi, fotografo di Calimera e buon conoscitore del suo cinema. Si tratta, con ogni probabilità, di uno dei migliori set di foto pasoliniane oggi disponibili in Italia, con una serie di scatti in un bianco e nero efficace, poetico, a tratti graffiante, sia nei primi piani sia negli sfondi.
Movimenti in vista della salvaguardia e del recupero del grico del Salento sono in atto da decenni, con la costituzione di associazioni culturali e circoli, tra i quali spicca su tutti, per quantità e qualità del lavoro svolto a partire dal 1985, il circolo Ghetonìa (il nome significa ‘vicinato’) di Calimera: dal circolo è nata poi la Casa museo della civiltà e della cultura grika, oggi molto attiva sotto la responsabilità di Silvano Palamà e di Vito Bergamo. La Casa museo, che possiede una biblioteca sul grico e sulle minoranze di notevole completezza, ha anche un’attività editoriale in proprio; spiccano, tra i prodotti, i calendari tematici prodotti da Silvano Palamà tra il 1993 e il 2013 (se ne può avere una sintesi al sito www.ghetonia.it); ogni anno la Grecìa è presentata da un punto di vista diverso, dall’architettura rurale a quella dei centri storici, dalle arti e i mestieri ai panorami aerei. Il Ghetonìa, negli ultimi anni assieme ad altri, organizza anche una bella rassegna annuale itinerante a tema, Attraversando il griko; la manifestazione si è svolta, oltre che a Calimera, anche a Zollino, Martano, Corigliano e Roca.
Fra le altre realtà dell’associazionismo va ricordato senza dubbio il Centro Studi Chora-ma (Sternatia), attivo fin dal 1978.
In generale, il punto debole nel ragionamento della miriade di associazioni locali nate intorno al rilancio del grico è costituito dal fatto che di solito si parla del grico in italiano, oltre ad una serie di altri fattori di fragilità (cfr. per es. Romano 2011, 181-182): la scelta della rivista i Spitta (www.grikamilume.com/spitta) di scrivere esclusivamente testi in grico è senza dubbio coraggiosa e controcorrente.
A proposito di carta stampata, a Calimera esce da più di cinquant’anni un numero annuale della Kinita (l’ortica, in grico), giornale teoricamente trilingue (italiano, dialetto romanzo, grico); se guardiamo anche sommariamente ai dati, c’è tutto il senso di un mezzo secolo disastroso per le sorti dell’ellenismo salentino. Nel primo numero (1968, 6 pagine) gli articoli in grico erano due, più altre citazioni nel quadro di una commemorazione; nel cinquantesimo (2017, 16 pagine), nessuno (anche qui le due poesie in grico citate sono in un articolo commemorativo di Giannino Aprile).
Non è mancato chi ha proposto di riavvicinarsi, piuttosto che a una lingua morente (e quindi percepita dai parlanti comuni come inutile), direttamente al neogreco, in una sorta di riscoperta del legame tra le due sponde del mare. Il ragionamento, certo, sul piano puristico-filologico non regge, dato che neogreco e grico sono nello stesso rapporto di italiano e un qualunque dialetto italoromanzo, con la differenza, tutt’altro che irrilevante, che il neogreco non è la lingua tetto del grico, da cui la lingua debole possa attingere linfa vitale per il proprio rinnovamento. Ma esso non è privo di un suo intrinseco fascino e persino di un realismo radicale: l’idea che il futuro del grico sia il neogreco vuol dire aprirsi la possibilità di affinare la propria lingua almeno come strumento di bilinguismo e confrontarla con quella di più di dieci milioni di parlanti di una lingua ufficiale dell’Unione Europea, essendo la diglossia ormai preclusa dal fatto che i parlanti grichi pensano in italiano o in dialetto romanzo: tra pochissimo, forse già adesso, quelli che parlano grico non saranno, non sono più madrelingua.
Per molti abitanti dell’area il viaggio in Grecia è una sorta di rito che va fatto almeno una volta nella vita; ci sono casi di matrimoni misti e addirittura di qualche “ritorno” alla madrepatria. “La nostalgia della Grecia è un sentimento che i calimeresi avvertono con una forza che sorprende i “latini”, ma è soprattutto un patrimonio da opporre con orgoglio a quel misto di diffidenza e ammirazione che li circonda”, scriveva Rina Durante in uno splendido racconto, Le nostre parti. “I pescatori di Melendugno sono solo contadini che vanno a pesca; il mare è per essi un posto dove il contadino si procura il pesce. Per i calimeresi invece il mare è una lunga strada azzurra che porta alla Grecia” (Aprile 1990, 460-461).
Il senso di comunità con l’antica madrepatria è stato cementato in modo molto significativo dall’attività del sindaco di Calimera degli anni Cinquanta, Giannino Aprile. Dalla toponomastica del paese, con l’intitolazione di diverse vie agli ellenisti locali, al conferimento della cittadinanza onoraria agli studiosi del tempo (Rohlfs, Skouses, Andriotis, Kapsomenos, Stomeo, Bakalakis, Kalleris, Karanastasis, Skavenitis e Parlangeli), la svolta culturale dalla damnatio memoriae alla rivendicazione orgogliosa di una grande eredità culturale è evidente, anche se purtroppo mai più ripetuta, con questa qualità e intensità, nella storia della Grecìa. Ma l’impresa più notevole di Giannino Aprile è senza dubbio la richiesta, fatta nel novembre 1957 all’amministrazione comunale di Atene, di un cimelio antico che ricordasse la comunità delle due sponde (“un avanzo architettonico o, almeno, un Sasso dell’Acropoli” (Aprile 1972: 45 n 1; si noti la maiuscola reverenziale di Sasso). Il Sindaco di Atene, con i suoi tempi (passò qualche anno e fu decisiva la mediazione del Consigliere culturale dell’Ambasciata greca a Roma, Skouses), assegnò a Calimera una stele del IV secolo a.C. L’arrivo della stele a Calimera si trasformò in un evento popolare di massa di cui è sopravvissuta persino una testimonianza filmata (archivio del dott. Renato Colaci).
Soprattutto nei contatti di quegli anni si avverte un senso di emozione difficile da raccontare. Ecco che cosa scrive il Comune di Calimera in occasione dell’arrivo di una delegazione della Facoltà di Lettere dell’Università di Salonicco il 19 giugno 1961 (lo riproduciamo perché l’opuscolo celebrativo dell’evento è ormai introvabile): “Dall’Ellade madre / Anche noi giungemmo un giorno nei secoli / E qui ora accogliamo voi / - Pellegrini d’amore e di scienza / Per le contrade antiche della Magna Graecia”.
Si tratta, ovviamente, di una sorta di nostalgia recente, almeno nel senso che i greci del Salento hanno “scoperto” di avere una patria linguistica al di là del mare solo nell’ultimo secolo e mezzo; prima i rapporti con l’altra sponda sono stati probabilmente azzerati per lunghi secoli, fino, cioè, ai primi intellettuali grecisti della splendida stagione otto-novecentesca (Vito Domenico Palumbo, cfr. il § 5.) e alle vicende storiche, la campagna di Macedonia (prima guerra mondiale) e la campagna di Grecia (seconda), in cui soldati provenienti dal Salento e dalla Calabria si trovarono ad operare direttamente sul suolo ellenico (Giannachi 2016b, 18). Con fatica, ma molti di loro si poterono fare interpreti dell’esercito italiano (o dedicarsi al mercato nero, o ancora allacciare relazioni amorose) con la popolazione locale proprio grazie al lessico del grico, largamente coincidente con quello del greco moderno, almeno nel nucleo di base. L’intero romanzo Arsinòi di Rocco Aprile (cfr. § 5) è dedicato alla ricostruzione di una di queste storie.
A compensare questo senso di fraternità con la madrepatria c’è un episodio assai istruttivo, e non solo in relazione al grico, ma a qualunque forma di rapporto centro/periferia nella lingua. Lo riprendiamo con le parole di Francesco Giannachi (2016b, 17-18), che racconta così questo episodio della sua infanzia: “alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, una mia zia mi teneva per mano lungo una stretta via del centro storico di Sternatia, i Chora come è chiamato il paese dai suoi abitanti ellenofoni. Un gruppo di turisti greci visitava il paese, sicuramente una delle prime comitive che venivano nella Grecìa Salentina, ed un’anziana donna seduta al sole lungo un muro scialbato di calcina bianca, vestita di nero con abiti lunghi ed un fazzoletto che le copriva la testa e si annodava sotto il mento, ascoltò parole familiari dai turisti neogreci e poi disse: «Pòka èchi àddho jèno so kòsmo ka milì grìka!». Avevo meno di dieci anni ma memorizzai quella frase che diceva: «Dunque nel mondo c’è altra gente che parla grìko!» e che può costituire ora un dato emblematico. Si può dedurre, infatti, che appena trent’anni fa i Greci del Salento, almeno quelli che erano realmente ancora griki ed avevano conservato un orizzonte culturale e geografico abbastanza limitato, non avevano una piena consapevolezza di essere gli ultimi eredi di un’isola greca che aveva radici oltremare, parte di un ramo linguistico occidentale nel panorama dei dialetti neogreci”.
Quanto ai materiali audiovisivi (saltando a piè pari i numerosi prodotti recenti per i quali è sufficiente il ricorso alla rete), per parte greca segnaliamo almeno il prezioso documentario di Antzel Mergianou per la televisione pubblica greca EPT, Οι Eλληνες της Κάτω Ιταλίας στον Πόλεμο του ’40 (sulla campagna di Grecia: raccoglie testimonianze di soldati delle minoranze italogreche che combatterono sul suolo ellenico). Per la parte italiana, acquista un valore di assoluto rispetto un breve documentario di Cecilia Mangini con soggetto di Pier Paolo Pasolini, Stendalì - Suonano ancora (1960), sulle lamentazioni funebri di Martano. Infine è imperdibile un bel gruppo di tre documentari del giornalista Rai Giorgio Vecchietti, girati e trasmessi dalla televisione pubblica nel 1975; una delle puntate è quasi interamente occupata da un’intervista a Gerhard Rohlfs.
Le nuove tecnologie e i social media hanno fatto la loro parte. I siti principali sul grico sono quelli di grika milume (‘parliamo grico’, per es. grikamilume.blogspot.com e www.rizegrike.com/spitta.php), legati alla rivista Spitta di cui si è appena parlato. Il sito istituzionale dell’Unione dei Comuni della Grecìa è in italiano e non riguarda o quasi la lingua (www.greciasalentina.gov.it).
Una delle iniziative identitarie non sterilmente proiettate verso il passato è la costituzione di un gruppo Facebook, Kalimeriti – Ambrò pedìa, nato su iniziativa di un medico calimerese, Renato Colaci, che molto ha fatto per il rilancio dell’identità del luogo in chiave di apertura culturale.
La generale scoperta turistica del Salento e di alcuni aspetti culturali come la musica tradizionale ha favorito, se non la lingua, almeno la popolarità del grico; La Notte della Taranta, il più partecipato festival di musica dal vivo d’Europa, si tiene appunto a Melpignano, nella Grecìa. Gli interpreti più capaci della canzone popolare in grico sono due gruppi storici, il Canzoniere Grecanico Salentino, fondato da Daniele Durante e Roberto Licci negli anni Settanta, quando il favore verso la riscoperta della musica tradizionale era praticamente nullo, e i Ghetonìa (il nome è un omaggio al circolo culturale citato sopra), fondati negli anni Ottanta ancora da Roberto Licci; una bella ricostruzione dei fermenti di quegli anni è proprio nell’intervista al musicista che si legge in Palamà. Hanno ormai una lunga tradizione anche gli Asteria di Sternatia, gruppo guidato da Giorgio Vincenzo Filieri. Se oggi la taranta è un fenomeno di massa, gli inizi certo non sono stati facili; abbiamo raccolto qualche anno fa dalla stessa voce di Daniele Durante testimonianze di concerti andati malissimo “perché la gente voleva Orietta Berti e noi suonavamo Aremo rindineddhamu”.
Preziose testimonianze del repertorio autenticamente tradizionale, non mediate da arrangiamenti moderni e reinterpretazioni d’autore, sono rinvenibili presso l’Archivio di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia; si tratta della preziosa raccolta 24, realizzata da Diego Carpitella e Alan Lomax tra il luglio 1954 e il gennaio 1955 e patrocinata dalla RAI e dall’Accademia stessa (Agamennone 2017: 10-14; lo studioso ne esamina gli aspetti musicologici in modo finalmente non impressionistico). Molte di esse sono ancora inedite; segnaliamo quella, impressionante per forza emotiva, dei canti a paravoce dei lavoratori delle cave di pietra di Martano. “Il canto a paravoce è la denominazione emica utilizzata nel Salento e preminentemente nella Grecìa per designare le modalità espressive polivocali a quattro parti; due voci procedono parallele per terze e due bordoni: uno sul registro grave, l’altro raddoppia all’ottava la voce principale, questo secondo bordone è detto paravoce” (Vincenti 2003-2004, 137).
10. Conclusioni
Il panorama su uno dei fenomeni più interessanti del plurilinguismo italiano non si può certo dire completo, ma contiamo di aver dato un’idea dei fenomeni principali: lo spazio linguistico su cui insiste il residuo di questa comunità, le vicende storiche che l’hanno portata fin qui, la questione della lingua, la sua fisionomia complessiva attuale e il suo stato di salute, la produzione artistica e letteraria, gli strumenti di descrizione, a cominciare dai vocabolari, e infine i movimenti di recupero. Per quanto, soprattutto riguardo l’ultimo punto, non si possa che essere pessimisti, resta da vedere per quanto ancora i greci, che sono su questo lembo delle coste mediterranee da così tanti secoli, riusciranno a resistere alla possente onda della globalizzazione.
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